Per quanto si considerassero a tutti gli effetti autori mystery, cioè “polizieschi”, “gialli”, Pierre Louis Boileau (1906-1989) e Thomas Narcejac (pseudonimo di Pierre Ayraud, 1908-1998) – divenuti un’inseparabile coppia letteraria dal 1951, pur continuando a pubblicare anche romanzi scritti individualmente – sono inequivocabilmente e assolutamente narratori noir. Non polar, secondo il fortunato neologismo francese onnicomprensivo che fonde i due termini policier e noir; non hard-boiled sulla scia americana, sottogenere che trovò anche in Francia i suoi epigoni, come José Giovanni o Auguste Le Breton; ma proprio noir, senza se e senza ma. Più neri del nero.
Per una più dettagliata distinzione fra mystery e noir, rimando a un mio vecchio pezzo su Carmilla, in questa sede basti dire che è l’atmosfera e non la storia a fare il noir, in letteratura come al cinema dove il film noir è definito dai suoi tratti visuali e figurativi e non da quelli tematici, uno stile, un mood, che attraversa e scavalca i vari generi. Là dove emerge il lato oscuro, l’ambiguità fra realtà e sogno (o meglio incubo), tra bene e male, tra vittoria e sconfitta, tra felicità e disperazione, là si sostanzia il noir, il cui argomento è di ordine esistenziale e metafisico. L’alterazione soggettiva del punto di vista, la prospettiva sensoriale e percettiva deformata lo determinano: amnesie, falsi ricordi, identità incerte e intercambiabili, fissazioni, manie, compulsioni, derive fantasmatiche, identificazioni proiettive. Il riproporsi di figure gotiche e psicanalitiche come il Doppelgänger, il doppio spettrale che rivela l’identità/alterità fra opposti, e il revenant, il non-morto e il rimosso che riaffiora, in una perpetua dialettica fra realismo e allucinazione.
Tutti i romanzi di Boileau e Narcejac fin qui pubblicati da Adelphi corrispondono pienamente a queste categorie: Celle qui n’était plus, del 1952 (I diabolici, 2014); D’entre les morts, del 1954 (La donna che visse due volte, 2016); Les Magiciennes, del 1957 (Le incantatrici, 2016). I primi due resi famosi da strepitose trasposizioni cinematografiche: Les diaboliques, del 1954 diretto da Henri-Georges Clouzot, con Simone Sigoret, Michel Serrault, Vera Clouzot, Paul Meurisse, e Vertigo, del 1958, diretto da Alfred Hitchcock, con James Stewart e Kim Novak – ed ora, più che mai, anche questo Les Visages de l’ombre, del 1953.
Un racconto crudele che potrebbe essere l’aggiornamento contemporaneo di quelli di Barbey d’Aurevilly o di Villiers de L’Isle-Adam e che si centra su una deprivazione sensoriale: la cecità. Come può una persona che ha da poco perso la vista essere sicura che quanto la circonda è davvero quello che ci si aspetta sia? Se i sensi rimasti, il tatto, l’olfatto, l’udito, mettono in dubbio, in modo sottile ma inequivocabile, quanto affermato dalle persone che si prendono cura di lui, può il cieco conservare la fiducia assoluta nei propri cari, nei familiari più stretti – apparentemente devoti – da cui dipende in tutto, specialmente se è un ricco industriale autoritario e testardo e se questi sono una moglie bella e non più innamorata, un fratello minore fatuo e spiantato e un socio in affari pronto a reclamare un ruolo di maggior peso nell’azienda? È quanto capita malauguratamente a Richard Hermantier, ingegnere che ha fatto fortuna nel settore delle lampadine, accecato dall’esplosione di una granata tedesca, residuato sepolto della guerra da poco finita, urtata per caso mentre faceva giardinaggio nella sua villa; sopravvissuto fortunosamente ha subito varie operazioni e un lungo ricovero in ospedale e si ritrova senza più occhi e, presumibilmente, sfigurato alla mercè di parenti, dipendenti e comproprietari. Nell’illusione di poter riprendere, dopo un mese o due di completo riposo nella sua isolata villa in Vandea, le redini dell’azienda, tenta con caparbia determinazione di recuperare un certo equilibrio psichico e di affinare una sfera sensoriale inedita che sembra tradirlo costantemente. Qualcosa non torna, la villa non sembra corrispondere al ricordo che ha di essa, le premure della moglie, del fratello e dei domestici, gli suonano false: nessuno sta dicendo la verità, né sul luogo effettivo dove si trovano, né sul suo aspetto fisico (è diventato un mostro?) o sulle sue reali condizioni di salute. La convalescenza diventa un inferno in cui ogni odore, ogni suono, ogni muro, porta o protuberanza esplorata con le mani, sembrano affermare una realtà che contraddice la versione rassicurante proposta dai vedenti.
È forse diventato paranoico, il colpo subito lo ha fatto impazzire, oppure tutti stanno cospirando contro di lui? Gli assegni che firma hanno davvero l’importo dichiarato a voce? Qualcuno si insinua in silenzio nella sua camera per spiarlo e controllarlo regolarmente? Hermantier intraprende una snervante mosca cieca per cercare di capire cosa stia effettivamente accadendo intorno a lui e, forse, per salvare la sua stessa vita: “E Hermantier capisce. Capisce che dal giorno dell’esplosione sta sempre sul chi vive, nella convinzione che, prima o poi, debba fatalmente ricevere il colpo di grazia. In cuor suo non ha mai smesso di pensare che l’esplosione fosse solo l’inizio. È una cosa che non significa niente, d’accordo. Ciò non toglie che gli tremano un po’ le gambe e che il corpo si irrigidisce come quello di un animale trascinato sulla soglia del mattatoio”.
Come i due resi più famosi dal cinema, anche questo romanzo di Boileau e Narcejac non dà un attimo di tregua al lettore per cui è impossibile abbandonarlo fino all’ultima riga. Un testo a più strati che, oltre al brivido, fa emergere la componente metaforica, filosofica e addirittura metafisica in una prospettiva spietata e non consolatoria: quella di un vero, assoluto noir.