Mi sembra una ricorrenza un po’ stanca, la Giornata della Memoria. Non perché non la si reputi importante, che anzi ripensare all’Olocausto mette più che mai i brividi. Ma perché sembra sia stato detto tutto e raccontato tutto, e che i nuovi romanzi e saggi che gli editori pubblicano per l’occasione siano aggiunte, dettagli, nessun disvelamento e nessuna scoperta. E poi la gente è così indaffarata e preoccupata per tutto quello che succede ogni giorno e potrebbe succedere ogni momento, che questa sembra una giornata come le altre.
Allora ho pensato, ma cosa farei io per tornare a darle un significato, per renderla attuale e presente come era nelle intenzioni dell’ONU quando venne istituita? Mi è venuto in aiuto un saggio, pubblicato da Il Mulino: Storia culturale degli ebrei, di Piero Stefani e Davide Assael, fresco fresco di stampa. È un saggio corposo, di lettura semplice e appassionante, ma pur sempre impegnativo. Che però compensa l’impegno con dei regali preziosi. Innanzitutto è preciso e circostanziato, e percorre la storia degli ebrei e della loro cultura dalla Torah ai giorni nostri. Andando anche ad intuire dove sono le lacune del lettore italiano che, come me, non ha studiato i testi sacri e ha solo il senso di quanto determinante sia la religione dal punto di vista storico. E ricordando ripetutamente quella peculiarità della cultura ebraica, che le sacre scritture vanno continuamente interpretate, non sono qualcosa di certo e lineare ma qualcosa che richiede continuamente il lavoro e lo studio, e anche il rischio dell’interpretazione. “Va’ e studia” è il monito di un rabbino, che mi è rimasto particolarmente impresso per la sua attualità.
Nel corso della sua lunga storia, e fino alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, il popolo ebreo non ha mai avuto un territorio, un luogo che ne definisse l’appartenenza, dove si potessero situare le tradizioni, i rituali, le regole condivise. Non è stato neppure un popolo nomade, come ce ne sono stati molti altri nella storia, perché non si è mai mosso uniformemente e in modo compatto. È stato un popolo ospite, di per sé una posizione scomoda e complicata. E ospite di diversi stati in diversi momenti, quindi sempre caratterizzato da una certa frammentarietà e dispersione. Il che ci spiega perché gli ebrei non si siano mai integrati in nessuno dei vari paesi di cui sono stati ospiti. L’unico modo per conservare e tramandare la loro identità di popolo e cultura era quello di custodire quella identità dentro di sé, attraverso delle pratiche precise e metodiche; evitando quindi di contaminarsi, integrarsi o assimilarsi alle culture di chi li ospitava.
Naturalmente ci sono state diverse tappe e diversi momenti, in questi oltre duemila anni di storia. Momenti di maggiore accoglienza e momenti atroci, cacciate e pogrom. Sono cambiate le società, e sono cambiati gli ebrei. Che però hanno conservato la Torah come una “patria portatile”. Continuando a studiarla e a cercarvi conforto spirituale oltre che indicazioni pratiche per vivere. Perché da ospiti più che mai si ha bisogno di riferimenti e regole di comportamento. Dopo l’Illuminismo ci sono stati in realtà degli sforzi di emancipazione e integrazione, che hanno accolto i valori universali di libertà, uguaglianza e fratellanza e che sulla base di questi hanno cercato di avere un rapporto più aperto e di scambio con le società occidentali ospiti. Nonostante le differenze e i cambiamenti, in questi secoli l’antisemitismo ha sempre trovato ampio spazio nelle società europee, come testimonia anche la letteratura, Shakespeare in primis.
Ed è entrando nel Novecento che la storia subisce un’accelerazione e una drammaticità mai viste prima. In un certo senso, i totalitarismi dell’inizio del secolo aiutano l’identità ebraica a definirsi. Ma a un prezzo che nessuno sceglierebbe mai di pagare. Ovviamente i regimi totalitari in questione sono molto diversi, nella loro ideologia come nel loro rapporto con l’ebraismo. E secondo questo studio è solo il nazismo ad avere lo sterminio degli ebrei al centro e al cuore della sua ideologia, ad essere un’ideologia completamente incentrata su questo scopo. Gli altri totalitarismi, in cerca di nemici come è nella natura della bestia, annoverano anche gli ebrei tra le minoranze da perseguitare.
Arriviamo poi al 1948, anno in cui viene proclamato lo stato di Israele, e in cui viene sferrato il primo attacco della Lega Araba. Qui entriamo in una storia molto recente, molto vicina a noi, e molto attuale anche. Una storia che ci divide, ci mette in difficoltà e ci spiazza, perché facciamo fatica a tenere insieme la nostra visione degli ebrei come vittime di tante persecuzioni tra cui la peggiore in assoluto, l’Olocausto, con la percezione di uno stato nazionalista al pari di quelli europei, e assai poco propenso a concessioni pacifiche.
Il saggio da cui siamo partiti si conclude proprio con il capitolo “Le sfide future per l’ebraismo”. Partendo dalle profonde divisioni interne di questo neonato stato, che riusciamo a capire meglio dopo aver letto tutto il lavoro di approfondimento storico, viene presa in esame la posizione internazionale di Israele e le complesse relazioni con i paesi arabi. La questione palestinese, che a dispetto delle apparenze potrebbe non essere la più cruciale per lo stato ebraico, ha in realtà preso di nuovo la ribalta prepotentemente dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 alla striscia di Gaza.
È dunque alla luce di questa lettura, lasciandomi con più domande che risposte (ma questo è il bello dello studio), che guardo a questo Giorno della Memoria. E la guardo pensando ai nostri migranti. A quelli che sono arrivati, che stanno arrivando e che arriveranno. Alle reazioni che suscitano. E a come si sentono loro. Che arrivano in un posto completamente diverso dalla propria casa. Ci arrivano tristi e speranzosi. Con un bagaglio di cultura e tradizioni di cui non sono magari granché consapevoli, ma che è anche il loro unico bagaglio. Ingombrante e prezioso al tempo stesso. Noi li “accogliamo” di malagrazia, in generale e fin quando possiamo li ignoriamo. Non li capiamo, le loro tradizioni non ci interessano, pensiamo che le nostre siano migliori; e in ogni caso sono le nostre. Alcune organizzazioni, alcuni volontari, uomini e donne di buona volontà, fanno da traghettatori. Interpretano, tirano un po’ di qua, spingono un po’ di là. Si sforzano di capire, si mettono in discussione, si affaticano e si arricchiscono, solo spiritualmente s’intende. E in un paio di generazioni una sorta di integrazione si fa strada, emerge.
Nel mezzo tante storie, di cui dovremmo conservare la memoria. Non tanto perché la memoria ci possa preservare dalla pratica di altri orrori e altre aberrazioni. Abbiamo visto che non è così. Però la memoria, con il racconto, con la trasmissione delle tradizioni e delle culture da una persona all’altra e anche da un popolo all’altro, ci aiuta a conservare e alimentare quella pietas, quella compassione che definiscono la nostra umanità. Da dovunque veniamo. E questo è un monito bello e importante, per una giornata che non sia come le altre.