Piero Cipriano / Psichedelia antipsichiatrica

Piero Cipriano, Vita breve della psichiatria dal manicomio alla psichedelia. Storia di internamenti e antipsichiatria, pillole tristi e piante magiche, Luca Sossella Editore, pp. 208, euro 12,00 stampa

Mi piace molto come scrive Piero Cipriano, e ancor di più mi piace quello che scrive; mi rallegro quindi che, a pochi mesi dall’uscita del suo libro sull’ayahuasca appena recensito su Pulp Magazine, sia di nuovo presente in libreria con un’opera ancora più vasta e ambiziosa: un’antistoria della psichiatria da percorrere in parallelo speculare e critico con la sua possibile nemesi e, forse, palingenesi, la psichedelia. Il paradosso, quasi un koan zen su cui non stancarsi di meditare, di un incontro e di una sintesi tra Franco Basaglia e Timothy Leary.

Da pensatore anarchico qual è, Cipriano, seguendo Foucault, vede la psichiatria, che pure pratica professionalmente da decenni (dentro e contro, alla Basaglia), come una terapeutica clinica sostanzialmente concentrazionaria. Prodotto di un protocollo inaugurato dall’editto francese del 1676, che prescriveva l’ospedalizzazione e dunque la reclusione per tutti i devianti di Francia, e illuministicamente ottimizzato un secolo dopo da Philippe Pinel, che per primo separa il “malato mentale” dagli altri emarginati sociali, inventando il termine che definisce il nuovo metodo, psichiatria – cura della mente – e il suo tempio, la Salpêtrière, a Parigi, primo manicomio in senso moderno. Questo universo concentrazionario del manicomio, inteso come luogo di isolamento e segregazione più che di cura – essendo i “pazzi” (psicotici e schizofrenici come li etichetteranno più tardi) dichiarati incurabili, oggetto quindi di mero contenimento – termina con la rivoluzione di Basaglia. Il carcere si apre, dopo una dura battaglia il paradigma cambia, decade “lo spettro della pericolosità lombrosiana, che assimila il folle al criminale” e la cura non è più la deportazione in luoghi a parte ma restare nella società civile la quale “ha il dovere etico di prendersi cura della persona in crisi”.

Ma, osserva Cipriano, dopo il 1980, appena morto Basaglia, (e proprio negli anni immediatamente successivi a quelli della messa al bando definitiva delle molecole psichedeliche, anche nell’ambito della sperimentazione scientifica), le sbarre delle gabbie, non più fisiche, vengono progressivamente sostituite da un altro tipo di sbarre, intangibili ma ancor più divisive: il manicomio diventa chimico, non un luogo ma un medicinale. Non più camice di forza o elettroshock ma la somministrazione a vita al paziente di psicofarmaci, antidepressivi e cosmetici psichici (come disse Peter Kramer, testimonial pubblicitario del Prozac), scanditi dalla “macchina diagnostica” del DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, secondo le indicazioni di Big Pharma. Ma, evidenzia Cipriano, “La sconfitta di Basaglia […] è da mettere in conto a un limite del pensiero dello stesso Basaglia e dei suoi continuatori. Un pensiero gigantesco e rivoluzionario, d’accordo, ma troppo riduttivamente marxista: nella sua teoria dei bisogni che un essere umano deve soddisfare per poter stare bene manca qualcosa. Lavoro, affetti, relazioni, casa, stipendio, svago: e poi? E il bisogno primario degli umani, dopo che hanno portato a casa il pane, il bisogno di trascendenza? Capire insomma il senso del vivere, per elevarsi al di sopra del circuito lavora-godi-produci-guadagna-crepa. Rompere l’ego, non solo fortificarlo, e aspirare a una visione ulteriore dell’esistenza. Una psichiatria che non è capace di rispondere a queste domande è necessariamente destinata a morire”.

Ecco perché la psichedelia, non la “cura della mente” ma la “rivelazione dell’anima”, ne è il contrappeso e il contrappasso: la prospettiva terapeutica totale, “sacra” se vogliamo usare questo termine, il varco ulteriore che Basaglia non ha avuto il tempo e il modo di percorrere. E qui entra in campo Leary. Cipriano contrappone alle molecole della dipendenza e della schiavitù farmaceutica – ce ne elenca i nomi, così lugubremente simili a quelli degli arconti demoniaci, carcerieri dell’Heimarmene gnostica: Prozac, Zoloft, Fevarin, Sereupin, Efexor, Wellbutrin… e così via – quelle della liberazione enteogena (etimologicamente: che genera dio in noi): LSD, psilocibina, mescalina, ayahuasca, ecc. I nomi di scienziati, intellettuali e scrittori come Albert Hoffmann, Aldous Huxley, Humphrey Osmond, Stanislav Grof, Gordon Wasson, Timothy Leary, si alternano a quelli di sciamani e mistagoghi come Marìa Sabina e Georgi Ivanovic Gurdjieff, che sempre sottolineano come il pharmakon sia un contenitore nel quale si cela il sacro, il divino, e che l’effetto terapeutico nasca da ritualità, purezza d’animo, rispetto e avventatezza: è solo in questa direzione che si deve indurre la “transizione dalle attuali molecole psicofarmacologiche (che restringono la coscienza, non curano e iatrogenizzano), a quelle – estratte da piante, funghi, animali – che invece espandono la coscienza e – anche misticamente – curano”. Le droghe non sono affatto tutte uguali – per usare le parole di uno dei primi saggisti italiani in materia psichedelica, Ugo Leonzio (Il volo magico, 1969) – ci sono droghe sterili e droghe feconde.

Ma Cipriano non si ferma qui e avanza intelligenti critiche anche al cosiddetto Rinascimento psichedelico che, dopo i passati eccessi del Turn on, Tune in, Drop out di Leary, la conseguente reazione proibizionista e trent’anni di totale esilio delle droghe feconde (quelle sterili hanno continuato a imperversare), sembra riemergere finalmente in superficie. L’ideologia rinascimental-psichedelica, sostiene Cipriano, salverà i depressi ma non ha nessuna intenzione di salvare gli psicotici: “Si gioveranno della terapia psichedelica coloro i quali devono tornare al lavoro (depressi, ossessivi, traumatizzati, ecc.), mentre gli altri (schizofrenici, deliranti, maniaci) verranno trattati con gli antipsicotici depot, oggi detti LAI (Long Acting Injectable)”. Gli psicotici sommersi e i depressi salvati (ovviamente un’estasi minima, attenuata – puntualizza). A questo realismo capitalista che ingloba ogni cosa Cipriano, citando Mark Fisher, oppone un uso anarchico, mistico e antipsichiatrico della psichedelia: “più che Comunismo acido (Mark Fisher), più che Gnosticismo acido (Edoardo Camurri), io direi Anarchismo gnostico”. Motivo per cui è forse meglio che il Rinascimento psichedelico non vinca ma perda, che non emerga alla luce dei riflettori e della commercializzazione, ma resti sepolto, che, come i misteri eleusini e i riti dionisiaci, la psichedelia venga celebrata nei sotterranei, dove meglio agiscono gli sciamani e si agitano gli spiriti.

Ma il libro di Cipriano è così pieno di riferimenti, riflessioni e stimoli che questa mia sommaria recensione non ha la minima possibilità di rendergli pienamente giustizia: una delle letture più fertili degli ultimi mesi. Non resta quindi a chi scorre queste righe che fidarsi – Turn off your mind,relax and float down stream, cantava John Lennon nell’inno psichedelico Tomorrow Never Knows – e seguire il mio esempio procurandosi il volume.