Non basta forse un’esistenza intera a sciogliere gli enigmi posti da un capolavoro della letteratura che incarna una visione del mondo capace di trascendere il tempo e i confini: innumerevoli le domande che solleva, sottili le questioni filologiche che apre, sfidanti le molteplici interpretazioni che incoraggia. Eppure, Amleto e Amleto, personaggio e opera, non smettono di suscitare l’interesse di critici, pensatori, lettori e spettatori; non cessano cioè di chiamare per nome le nostre paure e idiosincrasie, di indicare l’infinito che ci abita e l’abisso che ci minaccia.
Il professore emerito Piero Boitani risponde all’appello con un saggio, edito da il Mulino, che rappresenta un nuovo tassello di questo dialogo incessante: già il titolo, In cerca di Amleto, suggerisce una tensione mai paga verso l’indagine, che non potrà forse mai dirsi conclusa ma che è in ogni caso significativo intraprendere. Nel suo lavoro denso e colto, l’autore mette in piedi un confronto puntuale non solo con il testo, ma anche con le letture che nel volgere dei secoli e delle stagioni del pensiero sono state concepite dai grandi: Goethe, Tolstoj, Pasternak, Eliot, Nietzsche, fino a Pirandello.
Amleto, spettatore del mondo, indugiando nel suo stare fuori di sé e fuori dal tempo, si concede di differire il momento della vendetta. I suoi celebri monologhi costituiscono la cifra stessa dell’enigma, sono espressione del dubitare e rendono Amleto l’eroe moderno così diverso da quello della tragedia greca: a Oreste, protagonista della trilogia eschilea, anche lui orfano cui spetta il compito di vendicare l’assassinio del padre, Eschilo accorda una sola domanda: “Pilade, cosa farò?”. Quell’unico momento di incertezza è subito superato dalla prontezza ad agire, suffragata dal volere degli dèi. Tutto questo è ancora possibile alla luce delle scoperte scientifiche e delle rinnovate consapevolezze filosofiche che il Seicento porta con sé?
Accanto alla parola di Amleto, vi è il canto di Ofelia, che si configura come la parola del lutto, proprio come quella di Elettra nella tragedia greca: se la domanda di Oreste è “Cosa farò?”, quella di sua sorella è “Cosa dirò?”. Nell’Atene del V secolo a.C., l’azione spetta cioè all’uomo, la parola alla donna. Eppure, in questo gioco di specchi e di rovesciamenti, accade che nella tragedia moderna l’uomo si sottragga all’aut-aut del tempo tragico e la donna sia privata della facoltà di esprimersi.
La promessa della vendetta proietta l’eroe verso il suo avvenire, ma la tragedia di Amleto è la tragedia del dubbio: il tempo della parola distorce e ostacola il tempo dell’azione. Quanta distanza da Oreste, il quale pure condivide con lui la condizione lacerante dell’orfano che deve scegliere tra legge del padre e legge della madre! In Eschilo è l’intervento divino a sciogliere il dilemma del protagonista, indirizzando il ragazzo lungo la via della giustizia; in Shakespeare questo non è possibile, perché il secolo in cui vive e scrive è quello del brivido metafisico, degli infiniti mondi di Giordano Bruno, e così l’elemento numinoso si riduce al fantasma inconsistente. Nel Novecento, dopo lo strappo nel cielo di carta pirandelliano, “Oreste è diventato Amleto”: l’eroe dalle certezze granitiche ora è tormentato dai dubbi.
Shakespeare si è fatto interprete delle contraddizioni del suo tempo e ci ha consegnato un personaggio dai tratti universali, in cui tutti noi sappiamo e possiamo riconoscerci. Il Bardo non è un nostro contemporaneo, ma senza di lui non saremmo quello che siamo. Possiamo decidere di accoglierne l’eredità o di prenderne le distanze: possiamo cioè accettare di essere Amleto, perché la nostra volontà non sa piegarsi al nostro destino, o possiamo rifiutare questo ruolo; possiamo scegliere di indossare la maschera di Ofelia oppure possiamo dire a noi stessi che non dobbiamo abbandonarci alla corrente del fiume solo perché un Amleto ha deciso così.
Secondo Boitani, Amleto (o Ecuba, o Edipo) per noi può rappresentare “l’esempio della fallibilità della virtù”; ma cosa siamo allora noi per Amleto? “Noi siamo infiniti e profondi come abissi, siamo infiniti modi di essere e caratteri, e infiniti sono i personaggi di cui siamo i demoni. È questo, credo, che lui, l’uomo, e l’attore che impersona, è per Ecuba: l’inattingibile profondità, e la smisurata estensione – le tante vie – di un’anima. Questo siamo noi per Ecuba – e per Amleto.”