Fulminante come sempre Piergiorgio Bellocchio, il cui sguardo critico sul mondo manca tanto in questa disgraziata fase storica. Abbiamo dunque la fortuna imperdibile di leggerlo in Diario del Novecento, a cura di Gianni D’Amo.
Bellocchio è stato fondatore nel 1962 (con Grazia Cherchi) dei Quaderni piacentini, [qui l’archivio online] una rivista molto importante nel dibattito politico sino agli anni ’80, punto di riferimento e di formazione per la generazione protagonista di quella fase storica. Nel 1984, dopo la chiusura dei Quaderni, con Alfonso Berardinelli pubblica Diario, che esce sino al 1993: una rivista nella grafica simile a un quaderno di scuola, scritta, stampata e spedita personalmente da Bellocchio ai suoi lettori, secondo la precisa convinzione che una persona che agisce è certamente meglio di un intellettuale, magari più dotato, ma inerte.
Dice Bellocchio:
La decisione di fare insieme una nuova rivista e di chiamarla “Diario” nacque nel 1984. Si trattava di prendere atto del cambiamento dello scenario sociale e politico, contro la falsa coscienza di una sinistra che si immaginava immune dal contagio della cultura dominante, convinta di aver conservato una sua diversità culturale, come se la società italiana non aspettasse altro che di essere guidata e salvata.
Per molti anni, se non per decenni, il marxismo aveva monopolizzato la critica della società, mettendo in ombra una serie di autori che ci parvero invece estremamente utili per capire sia il passato che le trasformazioni in atto. Autori che andavano secondo noi riletti senza troppe cautele interpretative e istruzioni per l’uso: pubblicammo innanzitutto Kierkegaard e Leopardi, cui seguiranno nei numeri successivi Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, fino ad autori eterodossi del Novecento come Simone Weil e Orwell.
Nel programma della nuova rivista Bellocchio espone la propria linea editoriale: riflessione sui fallimenti del movimento, critica alla Nuova sinistra che pensa ingenuamente di non dover fare i conti nel quotidiano con strumenti affilati di critica al pensiero dominante, apertura culturale che va al di là del marxismo e che indica autori fuori dal canone. Sulla questione della sinistra e della sua incapacità di mettere in discussione il pensiero corrente Bellocchio ha parole ironiche anche nel suo ultimo volume.
La noia e l’irritazione che mi suscitano tutti e tutto ciò che è targato di sinistra…ogni iniziativa “di sinistra” mi deprime.
La depressione si manifesta per l’incapacità della ex sinistra extraparlamentare di fare seri bilanci su cosa è stato il trentennio ’60-’80 e di analizzare le trasformazioni economiche sociali e culturali che hanno portato all’irrilevanza, complice il riciclarsi di personaggi-leader di quell’epoca nelle redazioni dei giornali più prestigiosi (e questo non per un percorso di corruzione: già si vedeva a vent’anni che erano soggetti pronti a vendersi) per l’ipocrisia di affidare solo alla categoria giuridica di innocenza/colpevolezza il giudizio su quegli quegli anni, senza spiegare il contesto, i valori, le aspirazioni che hanno portato alla violenza, per la censura a scrittori, filosofi e artisti che non dicevano di ispirarsi al marxismo.
Illuminante è il dialogo con Fortini in cui Bellocchio dice di sapere poco sulla guerra del Golfo perché non segue l’attualità. “Mi tengo fedele a vecchi valori – dice a Fortini – e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come fai tu, io retrocedo, mi nutro di passato”.
Nutrirsi di passato significa che le proprie passioni sono rimasti intatte come vocazioni e intatta la fedeltà a certe idee quia ad absurdum, oltre a ogni logica. Si è o non si è comunisti? Non lo si è, ma si vorrebbe esserlo, oppure lo si è, andando contro il ragionamento. Il comunismo è un’aspirazione, una direzione morale, una pratica concreta, la difesa ad oltranza delle vite offese dal sistema di potere. E a chi lo definisce un idealista, Bellocchio risponde che così sono chiamati coloro che vivono secondo l’aspirazione al bene, e che sono irrisi perché si vuole a tutti i costi che nel mondo esista solo la vigliaccheria, il cinismo e l’opportunismo che guidano le azioni dell’uomo. L’Italia è il paese dove ci si denigra, ma non si è in grado di fare autocritica.
Per quanto lo riguarda:
Non posso permettermi deroghe: la mia coscienza (come il mio stomaco) è delicata, ombrosa, subito si vendica per la minima offesa o mancanza di riguardo. Posso scrivere solo su Diario. Non posso allontanarmi da casa. Appena metto un piede fuori, in strada, immancabilmente pesto una merda.
Caldo e profondo è il modo in cui Bellocchio affronta la storia, disciplina amata come la politica, a partire dalla sua esperienza e da quella della sua grande famiglia. Attraverso la narrazione dell’infanzia e dell’adolescenza ci offre un ritratto straordinario della media borghesia di provincia dalla fine della prima guerra mondiale agli anni ‘50. Vi leggiamo un ritratto vivissimo di mamma Nena e del suo “moderato conservatorismo” che aspira a raggiungere l’uguaglianza in famiglia e per questo sogna che i figli più bravi e brillanti facciano un lavoro sicuro come l’infermiere, l’impiegato o l’insegnante per non farsi invidiare dai fratelli più sfortunati.
Il padre Francesco, avvocato e proprietario di poderi, intraprendente libero pensatore in casa e costretto dal suo lavoro a tacere in pubblico sul fascismo che disprezza. Allo scoppio della guerra la propaganda del duce, involontariamente comico perché privo del tutto di senso dell’umorismo, è esilarante e in famiglia si ride. “Non c’è nulla da temere da Churchill, un grassone dedito alle sbornie; Roosevelt, un paralitico, Stalin, il despota di un paese ancora semiselvaggio… Francesi e inglesi, popoli vecchi, infrolliti negli agi e nei vizi, troppo vigliacchi per battersi… Il loro ciclo volgeva al tramonto, l’ora della storia batteva inesorabilmente per noi italiani, un popolo giovane e ardito, come i tedeschi e i giapponesi”.
Giovanni D’Amo è più di un curatore, per Bellocchio è l’amico di una vita: acuto osservatore del suo modo di lavorare, della conoscenza e della difesa della sua lingua, della sua scrittura essenziale, scarna ed estremamente raffinata, dove ogni aggettivo ha tre o più varianti che D’Amo deve scegliere nel pubblicare una parte dei 208 quaderni/agenda che Bellocchio ci ha lasciato. D’Amo li ha letti, si è confrontato allo spasimo con l’autore per trovare la forma più adeguata, ha lavorato giornate intere e il risultato è la grande chiarezza e semplicità che il lettore assapora con piacere perché le osservazioni di Bellocchio catturano e spiazzano.
Diario del Novecento parla di tutte le passioni dell’autore: storia e politica si mescolano con la letteratura, il cinema e con le idiosincrasie verso intellettuali come Umberto Eco o politici come Walter Veltroni, con le immagini, le foto, le locandine, gli slogan pubblicitari che vengono scritti, oppure ritagliati e incollati sulle agende, perché esse sono il libro-mondo dove riversare giudizi, pensieri che stimolati da un’immagine o una lettura suscitano altre riflessioni, analogie, connessioni. Non è possibile dunque riassumere i contenuti di un volume ricco di sfaccettature che provengono da tutti i mondi culturali che Bellocchio attraversa con grazia e acume. Un libro che finalmente consente di meditare su un lavoro intellettuale la cui forza oggi in Italia ormai è quasi del tutto scomparsa.