Piera Oppezzo: tangibile fare poesia

Piera Oppezzo, Esercizi d’addio, Interno Poesia Editore, pp. 124, euro 12,00 stampa

Poesie inedite (1952-1965) che Piera Oppezzo lasciò, disposte e corredate di data di composizione, in una cartella insieme a molte altre “cose” affidate alla cura di Luciano Martinengo. Ultima testimonianza prima di lasciarci a circa settantacinque anni. Era il 2009 e quasi mezzo secolo era passato dalla prima pubblicazione einaudiana di L’uomo qui presente (1966), esordio di una poetessa che in quel periodo incideva già in certe anime (quelle già attente alla poesia di ricerca) e in certi avvenimenti sociali e politici. L’epoca recente sembra riscoprire quanto per molti ha avuto rilevanza, ma il riscatto in letteratura passa per vie traverse e generazioni che a un certo punto (senza che alcuno ne comprenda l’origine) giungono trasversalmente al già scritto, già detto. Basta attraversare il web per rendersi conto come, in alcuni, casi è davvero una fortuna che ciò accada. Al netto di quel che potremmo considerare come “scoperta dell’acqua calda”. Ma questo libretto, contenente i versi inediti di una poetessa approdata, nella misteriosità della sua esistenza, alla collana di poesia più importante (insieme allo Specchio mondadoriano e alla Fenice di Guanda) in Italia, mette le cose a posto – così come il precedente volume di poesie scelte, pubblicato nel 2016 da Interlinea.

Operazioni meritevoli entrambe, fuor di dubbio, se vogliamo prendere parte, in qualità di posteri, all’atto della scrittura perseguito a oltranza – e definito “atto principale” – da Oppezzo. Azione decisa fin dall’inizio, potremmo dire in modo spietato, tale da giungere a una reale scarnificazione, tramite forti interruzioni e aggiunte improvvise come un lampo: tutto legato alla corrispondente vita quotidiana, fatta di isolamento e di passaggio profondo negli stati (e stadi) successivi della poetica. L’andarsene da una grande città a un’altra, le speranze riposte nella questione politica e femminile, rappresentano il bordo lungo cui costeggiano lo spazio e il tempo dati dalla tangibilità delle parole: un “fare la poesia” che non vuol dire scrivere poesia per ristabilire equità a un’infanzia mancata o predata.

Ma dare fiato a quel “po’ di rigore” cui certamente guardava Adriano Spatola, editore con la sua Geiger – dieci anni dopo il primo libro – di quel 1967 sì a una reale interruzione che molti di noi hanno letto e riletto cercandovi (e trovando) alimento e definizione di salti di vita e stilistici. In una parola, qualcosa che desse ragione degli scarti letterari in corso e potesse riscattare la situazione italiana di quel periodo. Oggi sembra impossibile, ma le discussioni e gli intrecci fra poeti e critici erano molto fitti, e se non bastavano le lettere affrancate giungevano libri e libretti da ogni dove in grado di segnalare e segnare presenze (talvolta anche sfacciate) irrinunciabili. Bastava il “passaparola”, in un’atmosfera ancora esente da frequenze digitali.

Esercizi d’addio raccoglie poesie rimaste fuori da ogni edizione, vi si scorge una sorta di laboratorio di concetti e idee sfociati nel volume pubblicato da Einaudi e che sarà netta e lucida garanzia di scrittura senza lusinga, in cui manca del tutto il corteggiamento al presente (d’allora) della lingua. Niente a che vedere con il sogno, ma la concettualità è in qualche modo interpretazione di vita – per Oppezzo vige il favore della chiarezza, e col favore di questa l’allontanarsi definitivamente dalla convenzioni. Sopravvivere avendo l’idea che l’universo prepari riscatti futuri, come si legge nel testo di Splendido universo, ma quanto di onorevole ironia sta sotto la superficie di questa poesia? Lasciamo perdere l’insolito, affondiamo unghie e mente nella lettura – col conforto dei curatori – ma soprattutto nel tessuto dell’esperienza tralasciando quiete e incolumità poiché ormai è certo quanto entrambe non abitino più il tempo qui presente. Tanto vale, dunque, cercare d’essere sintonizzati con una lingua perentoria e mai rassegnata all’incertezza.