Un combattente, Jasper Geremia, nei quartieri popolari della Roma immersa negli anni Settanta: decennio dotatissimo di grovigli umani e sociali, tuttora oscuri e (forse) indagati, dove le nature umane si scontravano con modalità che sembravano definitive, e l’Italia ancora in bianco e nero doveva misurarsi con gerarchie pericolose e armate. In questo sgarbato guazzabuglio i sentimenti erano alleati a fragilità e maestose fantasie, sogni che il flessuoso e resistente Jasper allena ogni giorno sul ring, protetto da caschetto e paradenti mentre un avversario gli danza intorno e lui desidera soltanto l’inizio della contesa. Ma un evento che prende il nome di avance, da parte dell’allenatore, turba animo e quotidianità. Il mister non gli risparmia, con fare pettegolo e sguardo ben poco limpido, domande tese a indagare la sessualità privata del giovane, uno sguardo non certo disinteressato sull’immaginario erotico che si trova davanti: le corde del piacere vibrano soltanto per ragazze o anche per gli uomini? Identità sessuale? Figurarsi con che toni e in che termini, in quell’epoca italiana infarcita di luoghi comuni, equivoci e pensieri reazionari.
La palestra, i massaggi, gli episodi imprevisti, qualche salto ormonale inedito e non controllato, l’anemico interesse di una compagna di liceo, sono armamentario saturo di cartine al tornasole che saggiano la capacità di uno scrittore d’essere in vena o di ritrovarsi in una palude di strapazzi coloniali, che in Italia vuol dire adeguamento a autori nordamericani che dissero già tutto sull’argomento – un po’ per vizio, un po’ per noia, come s’usa dire. Ma i poeti nostrani ne hanno saputo molto di più, e di gran lunga, confrontando la loro idea di scrittura col resto del mondo: pensiamo alla triade Penna-Pasolini-Bellezza per cominciare, e ai numerosi e valentissimi compagni rispondenti a nomi distanti da fanatismi letterari: Arbasino, Testori, Busi, Coccioli, Siti.
Ma evitiamo uscite d’entomologo, e pacchiane semplificazioni provocanti quasi sempre polemiche e insulti. Pier Luigi Amata ha scritto un romanzo in cui i temi si rincorrono, non fanno il verso a nessuno, seguendo una sceneggiatura personale ricca di dialoghi alquanto probabili (è un pregio) fra personaggi che comprendono bene cosa sia l’amicizia maschile in quello stato carismatico, disperatamente forte ma a tratti imbelle, denominato adolescenza. Viaggi desiderati ma finiti male, parole dette talvolta senza ritegno ignorando più attraenti possibilità, correzioni di rotta, affetti e affiatamenti, si riflettono in queste pagine volte in alcuni brani a mostrare i movimenti d’amore mercenario così come Jasper l’immagina.
Ma tutto questo assomiglia maledettamente alla vita quando viene scritta – con parole centrate e, a dirla tutta, soddisfacenti. Scrivere è un atto di libertà, dovrebbe essere tenuto in buon conto, senza pallide reminiscenze e con eccellenti ondate di responsabilità. Amata manda in giro le soluzioni al suo privato questionario su quanto intenda per “passaggi d’età”. Si respira, inoltre, una certa aria d’incoraggiamento fisico: in fondo qui si tratta pur sempre di pugilato, di ring umidi di sudore e non soltanto di trame adescanti. E la giustizia prima o poi arriva, ci si accorge di aver vissuto molta della propria vita per giungere a quel punto lì: dove si sta frontali, e il peccato della vendetta appare ben poca cosa. In altri posti staziona il dolore, lo capisce il lettore che giungendo al termine del romanzo incontra i titoli di coda con una serie di “scene tagliate”. E un sorriso, probabilmente malinconico, all’improvviso viene a galla sul volto.