Sembra impossibile valutare quanto poco sappiamo noi bianchi occidentali intorno alle questioni che riguardano l’immigrazione. Quanto poco sappiamo dei rifugiati e dei richiedenti asilo. In realtà siamo molto informati. Sorbiamo voracemente le notizie della rete, delle televisioni e dei giornali. Ma non sappiamo nulla. Ci commuoviamo davanti alla foto dei bambini morti su una spiaggia, piangiamo per le notizie dei naufragi e ci arrabbiamo di fronte ai muri di Trump e di Orban. Ma non conosciamo veramente. Chi narra e chi propone testimonianze si sforza di usare i mezzi che ha a disposizione e che non sono pochi. Ci da tante informazioni, ma più osserviamo, leggiamo e ascoltiamo più la nostra posizione ci sembra inadeguata. I punti di vista con cui prendere contatto con questo fenomeno – che è profondamente umano oltre che politico e sociale – sono tanti e variegati. Ognuno aggiunge un piccolo tassello, ma ricostruire il puzzle non è affatto semplice. Specialmente se ci si trova sotto il fuoco di fila della speculazione politica e del rancore di gente spaventata e ringhiosa.
Un aiuto in questa direzione ci viene dal libro pubblicato dalla casa editrice La nuova frontiera, la cui autrice è una giovane scrittrice americana di origini messicane che si chiama Valeria Luiselli. Tradotto da un valente scrittore come Tommaso Pincio, Archivio dei bambini perduti sta riscuotendo un buon successo di pubblico, sostenuto anche dalla partecipazione dell’autrice all’ultima edizione del Festival Letteratura di Mantova.
Il punto di partenza dell’autrice è un libro precedente a questo, pubblicato nel 1997 sempre da La nuova frontiera e tradotto da Monica Pareschi, che ha per titolo Dimmi come va a finire. Vi si racconta l’esperienza che Luiselli fece nel 2015 come interprete volontaria per il Tribunale di New York all’interno di un’associazione di avvocati che si batte contro l’espulsione dei minori e cerca di tutelarli. È in questo contesto che Valeria Luiselli inizia ad affrontare due questioni che poi ritroviamo più diffusamente trattate nel suo ultimo libro. La questione delle parole e della lingua, e la questione delle responsabilità, non solo le nostre di abitanti dei paesi ricchi, ma anche quelle delle famiglie ormai distrutte e disgregate che lasciano partire i loro piccoli. Da questi punti di partenza il cammino procede spedito fino a far diventare i (tanti) casi singoli un fatto collettivo e in definitiva politico.
Quello che salta subito all’attenzione del lettore fin dalle prime pagine di Archivio dei bambini perduti è lo slittamento di senso e di significato che assumono i nomi delle persone quando stanno al di qua oppure al di là del confine. Prima di entrare in un paese più ricco hai un nome e un cognome. Quando riesci a entrare sei un immigrato, un clandestino, un rifugiato o qualcos’altro di dispregiativo o anche solo che ti differenzia in modo irriducibile dalle persone che, bene o male, ti hanno accolto. Le cose sono come le chiami e come le chiami segna definitivamente il loro e il nostro destino. Il linguaggio non è neutro.
Disumanizzazione ed eufemismi sono i tratti più violenti che il linguaggio può infliggere alle persone di un altro paese che chiedono di risiedere con noi, da noi. Tutta l’esperienza maturata da una donna giovane, ma già matura nel passaggio attraverso diversi mondi a contatto con tradizioni secolari, è la base su cui Luiselli scrittrice trova il passo giusto per narrare, ma soprattutto la sensibilità per vedere e farci vedere. Tutto viene utilizzato e riportato in vita nella consapevolezza che certe storie e certe tradizioni siano ancora profondamente radicate nelle diverse culture che vengono a contatto tra loro. Il problema è vedere come quelle dominanti considerano quelle subalterne. Il discorso allora si allarga fino ad arrivare a riflettere sul mito della frontiera americana, sul senso di conquista che ancora ispira i cittadini statunitensi e su come venga interpretato oggi attraverso il controllo dei droni e il filo spinato del confine con il Messico nella imperitura battaglia tra barbare e civiltà che ottusamente viene ripetuta all’infinito con modalità e mezzi diversi.
In questa dinamica sono i bambini, i soggetti più deboli che clamorosamente ne fanno le spese. Citiamo dal libro: “durante l’amministrazione Obama, i bambini detenuti in spazi di frontiera erano un paio di migliaia. Sotto l’amministrazione Trump hanno superato quota 14.000, e questo numero crescerà ancora. Sono bambini che non hanno fatto nulla di irregolare, hanno solo provato a superare la frontiera per chiedere asilo”. Il contributo della scrittrice allora è quello di costruire e ricostruire storie, nella convinzione di non stare parlando di “vittime”, ma di piccoli uomini forti e intelligenti. Inoltre, l’offerta al lettore di una scrittura fluida ed efficace offre a lettore l’opportunità di seguire le vicende di una famiglia: uomo, donna, figlio di lui e figlio di lei che sono delle guide letterarie di grande efficacia e affidabilità. Un omaggio non tanto alla narrazione, ma al linguaggio che costruisce legami e comunità.