Icone. La sintesi di ciò che crea il pensiero, il pensiero che può seguire i tempi senza rivoluzioni di qualche valore o producendo cambiamenti originali e perpetui. Le icone spesso circondano, saturano la realtà, ma difficilmente ce ne accorgiamo – e sono le più meritevoli di abbandono. Ma altre sono lì, corteggiano le menti, e diventano manifesto di se stesse. Ostacolano le cadute, mettono in forse i consensi e propongono processi compatti chiaramente visibili. La collana ideata e diretta da Massimo Cacciari non abbandona i lettori, bussa alla loro porta mese dopo mese con tempi che permettono assunzioni di responsabilità e metodo d’apprendimento. La bellezza abbandonata è uno di quei titoli che intervengono signorilmente nel comprendere quanto è già successo in arte, nel mondo, prima in Europa e poi estendendosi, e in quei primi anni del Novecento quando tutto sembrava cambiare nella società, nell’invenzione pittorica e nella letteratura. Da Ovest e da Est, tutti raccolti in una Parigi di strade e rive estremamente convinti dei propri mezzi e delle proprie idee.
1907. Una parata al bordello, le Demoiselles d’Avignon di Picasso non hanno più dalla loro l’armonia delle forme, i nudi classici tornano nei loro ambienti antichi mentre Picasso riconosce un’autonomia sua congenita e la espone barbaricamente ai passanti. Un mito che ha avuto origine in quei giorni parigini e che si è tramandato lungo tutto il secolo nei meandri dell’arte “moderna” caratterizzata da frammentarietà e perdita di senso, così come teorizza, anni dopo, Theodor Adorno. Giuseppe Di Giacomo riflette e mostra nel suo saggio il sensazionale patrimonio di quel periodo, documenta e descrive seguendo un discorso filmico il percorso della “bellezza” verso un universo di distorsioni e contorcimenti dello spazio (così come la fisica di Einstein e Heisenberg stava delineando attraverso inarrivabili equazioni) a cui la realtà deve sottostare. La complessità di quel quadro viene indagata da occhi attuali e occhi indigeni, pittori e osservatori dello stesso periodo, con interpretazioni che si susseguono andando a scavare negli strati più profondi dell’anima.
E dunque Matisse, Gauguin, El Greco, Derain, Ingres si susseguono lungo le strade sotto l’occhio attento, e mica è un caso, di Gertrude Stein. E da qui possiamo intuire come i canoni inizino a debordare e a insidiare le novelle trame letterarie. Joyce non dà salvezza alle generazioni che verranno, e Klee si rifugerà nella sua “preistoria” capace di dare crediti a ciò che è visibile. Breve è il passo verso Guernica, grande la passione regalata da questo libro a quanto si poteva ben definire, nei primi passi del secolo, il nuovo. Categoria in grado di giungere intatta, e con sempre ottime acquisizioni, fino alle soglie dell’ultimo trentennio del Novecento. Dopo, è tutta un’altra storia.
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Mistero Goya. Che si avvolge intorno alla sua intera opera, e che abbatte e ricostruisce ogni volta gli studi di esperti e le emozioni dei frequentatori di musei e gallerie d’arte. Goya malato, ma artefice di dipinti spesso portatori di sogni rasenti l’incubo e dimostrazioni di come la realtà diverga dalla psiche umana lasciando detriti da cui nulla potrà trarsi per mettere le cose a posto. Se a ben guardare nessun dipinto è scevro da particolari agghiaccianti (perfino la Maya, oltre all’opulenza del corpo, mostra occhi provenienti da altri mondi), sarà del tutto facile ripercorrere la storia delle 14 pituras negras che in questo nuovo Icona, appartenente alla collana di Cacciari, Umberto Curi tratteggia con intenzionale cura e florilegio di note d’accompagnamento. I dipinti sulle pareti interne della Quinta del sordo, casa di campagna abitata da Goya dal 1819 al 1823, poi trasferiti su tela non senza inconvenienti e offerti al pubblico dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878 per poi trovare sede definitiva al Museo del Prado, non mancano di misteri e regalie oscure. Primo enigma fiorisce intorno alla vera attribuzione: opera del Goya padre o del figlio Javier, pittore sì, ma di conclamata mediocrità? Francisco Goya, malato, decora le sale della dimora? Fra arcani e scoperte tardive il visitatore impallidisce di fronte alla figura terrorizzante di Saturno che divora un giovinetto, o quel che resta di una fanciulla già a pezzi nelle mani e di fronte alla bocca cannibale e spalancata di un dio terribile.
Curi descrive origine e storia del “dio terribile”, Kronos scaltro e malvagio, che si ritrova in vari contesti, personificato da Omero in Priamo, per esempio, o in Parmenide secondo Platone. Nella complicata genealogia degli dèi il figlio di Urano complica la vita degli umani a causa della pericolosissima commistione di malvagità e intelligenza. Dentro quest’incubo sta Goya con le sue immagini, più oscure oggi di quanto non fossero in origine per effetto di successivi deterioramenti. È nel susseguirsi dei capitoli che mito, storia, narrazioni millenarie si accumulano secondo lo stile dello studioso amante dei dettagli e degli elementi mancanti di una esistenza artistica a cui quasi certamente non mancò il confronto con il patrimonio mitologico.
Oggi ritrovarsi al cospetto del quadro raffigurante Saturno terribile raffredda il sangue, ma nessuno può sfuggire all’avvertimento in esso contenuto, al presagio di eventi nefasti che non sono mancati in epoca successiva, in quel Novecento abbandonato dall’umanità per muovere i primi passi nell’attuale secolo non certo privo di ulteriori presagi (qualcosa di più, invero) bui e evocanti freddi legami fra il tempo e la morte.