Alle ore 16,37 del 12 dicembre 1969, in Piazza Fontana, Milano, all’interno della Banca dell’Agricoltura si è consumato forse l’attentato più grave alle istituzioni democratiche nel nostro paese. Non tanto per il numero di vittime, che in altri atti terroristici è risultato molto più pesante, ma per la connivenza tra servizi segreti nazionali ed esteri, logge massoniche, criminalità organizzata e terrorismo neofascista al vertice dell’organizzazione. Non sono stati secondari i vari depistaggi che hanno impedito, dopo le istruttorie, otto processi, più di cinquecento udienze dibattimentali di fare giustizia sulla responsabilità di Ordine Nuovo, con Franco Freda e Giovanni Ventura non più condannabili perché precedentemente assolti da una Corte di Cassazione.
Sono molti i libri usciti quest’anno, nel cinquantesimo anniversario della strage di Stato, scempio attuato dai poteri forti: eravamo nel biennio rosso, come recita il sottotitolo del libro, e le proteste studentesche del ‘68 si erano intrecciate con quelle dei lavoratori. Diritto allo studio per tutti, la richiesta di maggiori diritti civili, di salari più adeguati e ritmi di lavoro più umani, insieme a una sanità davvero pubblica e pensioni sociali per i ceti più deboli erano diventati più che semplici slogan. Il PCI, riferimento degli studenti e operai, guadagnava in popolarità e la parte più reazionaria dell’Italia, insieme agli Stati Uniti, oltre a questa ascesa era preoccupata dalla crescente insubordinazione sociale, fenomeno che non aveva mai raggiunto tali dimensioni. Milioni di lavoratori scioperavano per il rinnovo dei contratti e solo i metalmeccanici avevano fatto 200 ore di sciopero. Quindi non è un caso che il 1969 sia stato l’anno delle bombe: se ne contarono 145, una ogni tre giorni, tutte prove generali per l’attentato di Piazza Fontana.
Dopo pochi minuti dallo scoppio della bomba, il dito accusatore fu puntato verso gli anarchici: il paese si stava spostando troppo a sinistra e colpire la sinistra più radicale era il modo migliore per riportare il paese verso il centro. Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda, che vengono fermati quasi subito e accusati della strage, il primo scaraventato dalla finestra della Questura e il secondo incarcerato per anni senza alcuna colpa, non sono altro che altre vittime che si sommano alle diciassette all’interno della banca più le decine di feriti.
Ma la strategia della tensione non pagò perché il 15 dicembre, ai funerali delle vittime, 300.000 milanesi partecipano alle esequie per respingere l’attacco alla democrazia e rispedire al mittente la volontà di mettere a punto un giro di vite autoritario che inasprisse le leggi, rendesse più facile il carcere preventivo e mettesse a tacere il dissenso per trasformare il Paese in uno stato assoluto.
Non è possibile in queste righe ricostruire i dettagli di questo tragico avvenimento, ma Parole per Piazza Fontana cerca di farlo con documenti e testimonianze di chi era a Milano in quei giorni, lavoratori della banca, gente comune e sindacalisti dell’epoca, e oltre che essere una lettura interessante per chi ricorda l’attentato, un modo per approfondirne i lati meno conosciuti, sarà indispensabile per tutti coloro, le nuove generazioni, che lo hanno conosciuto solo per sentito dire. Perché la memoria – come dice Luciana Castellina nell’introduzione – non è lamentoso esercizio ad uso delle nostalgie dei vecchi, è la chiave per capire il nostro presente.
I due autori, Antonio Damiani e Maurizio Framba, sono due bancari ex dirigenti territoriali e aziendali della Fisac Cgil di Montepaschi, istituto in cui è confluita, qualche anno fa, la Banca dell’Agricoltura.