Il 6 giugno 1970 Peter Weiss è colpito da infarto. L’autore tedesco, che vive dal 1939 in Svezia, a Stoccolma, si trova proiettato all’improvviso in una condizione precaria di fragilità e di incertezza, da cui si riprende a poco a poco anche attraverso il ricorso terapeutico alla scrittura di questo diario, pubblico e privato insieme, che sarà pubblicato postumo nel 1991, ma del quale Weiss – già all’epoca della sua prima composizione – progettava un’edizione e anzi la proponeva al suo editore Suhrkamp: di ciò, come di molti particolari relativi alla genesi e alla vicenda compositiva ed editoriale del testo, dà conto l’ampio e accurato commento di Serena Grazzini al testo, che viene presentato per la prima volta in Italia nella traduzione di Roberta Calamita con l’originale tedesco a fronte: un’operazione coraggiosa, vista anche la mole del volume, utile tanto al lettore curioso quanto allo studioso che può giovarsi anche del capillare apparato di note che illuminano e approfondiscono i numerosi riferimenti sui quali Weiss costruisce le sue riflessioni.
Sorta di Vita nova, ripresa “fisica” di un lavorio intellettuale che non si è mai interrotto durante la malattia, Convalescenza copre quasi quotidianamente lo spazio di tempo che va dal 10 agosto al primo giorno dell’anno seguente, l’1 gennaio 1971, e muove simbolicamente dalla dimensione del sogno, che caratterizza in modo marcato le prime entrate, a quella sempre più concreta della realtà. Un ragionamento continuo su un presente in cui la politica e il sociale, il “pubblico”, si compenetrano fortemente con il privato, ne segnano la portata e i confini, e definiscono la direzione e il senso dell’impegno intellettuale, nel quale Weiss si cala con tutta la sua determinazione e il suo spirito critico.
Una forma diaristica, sia pure sui generis, dalla cadenza serrata, in cui sono annotati soprattutto i pensieri: una forma che in quegli stessi anni andava adottando Uwe Johnson per il suo capolavoro, Jahrestage (I giorni e gli anni), il cui primo volume esce proprio nel 1970 e presso lo stesso editore di Weiss, Suhrkamp (nel 1984 il titolare della casa editrice, Siegfried Unseld, si troverà al centro di un’aspra contesa per i diritti di autore con gli eredi di Johnson, scomparso quell’anno; Weiss, classe 1916, se n’era andato due anni prima): quello che per Johnson è stratagemma narrativo si invera in Weiss in un resoconto autentico, la registrazione di eventi e pensieri che segnano l’incontro tra la vicenda personale dell’autore e un frammento di storia in un’epoca densa di eventi e di cambiamenti come poche nei nostri tempi. Ma se Jahrestage si chiude sull’esperienza fallimentare della Primavera di Praga e traccia con ciò un bilancio su quegli anni e su speranze deluse (ma anche sulle ancora vive), Convalescenza quella rivoluzione mancata, che pure viene ricordata più volte, ormai l’ha alle spalle, e altre sono le urgenze che l’agenda politica richiama nel vorticoso avvidendarsi dei fatti della storia. Centrale in queste pagine – come sottolinea la curatrice – è soprattutto la riflessione sulla Guerra del Vietnam (Weiss aveva visitato il paese asiatico nel 1968 in solidarietà con i compagni comunisti combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale, per poi dedicare al conflitto estremo-orientale l’intenso poema drammatico Viet Nam Diskurs (Discorso sul Viet Nam), 1968), la cui esperienza richiama momenti di forte concentrazione narrativa, come le pagine dedicate all’attacco di coliche renali che colpì lo scrittore tedesco a Hanoi e al conseguente ricovero ospedaliero, nelle quali è esemplare il grado di compenetrazione tra politico e vissuto. Oppure la parallela ma diversa esperienza della rivoluzione cubana (anche di Cuba Weiss parla per esperienza diretta: vi era stato stato in visita nel 1967) e più in generale del risveglio terzomondista, con le speranze e le perplessità sull’evoluzione che stavano attraversando le rivoluzioni compiute e quelle da compiere: Speranze e perplessità che s’inquadrano in uno scetticismo generale maturato da Weiss anche in seguito alle polemiche che avevano appena salutato il suo dramma su Trotskij (Trotzki im Exil (Trotskij in esilio), 1970), attirandogli gli strali degli intellettuali più filosovietici, incapaci di riconoscere – o di accettare – nella sua visione il respiro di un’idea meno soffocante di un socialismo possibile. Rispetto al socialismo reale, invece, Weiss sembra nutrire poche speranze. Illuminanti sono in tal senso le pagine che dedica a Che Guevara, ancora vivo all’epoca del suo viaggio a Cuba, e del quale intuisce la parabola futura a icona pop depotenziata di ogni valenza rivoluzionaria (su di lui tornerà nel suo tardo capolavoro, Die Ästhetik des Widerstands (L’estetica della resistenza), 1975-1981). Weiss non ha dubbi e attribuisce tale esito proprio all’ortodossia ottusa e incapace di cogliere lo spirito del cambiamento. “Che Guevara è caduto […] come un nuovo Trotskij”, scrive Weiss, a dimostrazione di come appaia ferito, anche in queste pagine di Convalescenza, per i ricorsi della storia e per l’ombra che essi proiettano su di lui. Tuttavia la delusione non scalfisce la fede nei suoi ideali, ribaditi con slancio disarmante e appassionato in una sentenza icastica: ”socialismo e libertà sono concetti inseparabili”. Certo, la sua fede non è cieca, e il suo sguardo è colmo di disincanto rispetto alle potenzialità annichilenti dell’arsenale della reazione, alla forza immane in grado di agire le potenze in gioco. L’oscurantismo latente o patente della macchina del potere è un fattore determinante sullo scacchiere della politica mondiale, Weiss ne è consapevole, e tuttavia riconoscerlo può servire a smascherarlo e alla fine forse a rovesciarlo, in una fase della storia in cui questo obbiettivo sembra ancora realizzabile. A noi questi appaiono sogni e forse fanno perfino tenerezza: ma se si va fino in fondo a queste pagine, la tenerezza scompare e lascia il posto al sollievo della ragione esercitata sulla complessità del mondo, alla lucida consapevolezza, alla voglia di utopia.