Uscita qualche anno fa in edizione rilegata, la monumentale biografia che Peter Longerich dedica a Joseph Goebbels, è stata ripubblicata recentemente da Einaudi in versione economica. Il volume dovuto a uno dei maggiori studiosi tedeschi del nazismo – autore, fra l’altro, di un altrettanto monumentale volume su Hitler (Utet, 2020) e di uno, non ancora tradotto in italiano, su Heinrich Himmler – segue scrupolosamente la carriera del ministro della Propaganda del Terzo Reich, attingendo ai suoi discorsi pubblici, ai numerosi articoli pubblicati sulla stampa del regime, e soprattutto alle migliaia di pagine dei diari personali, che il gerarca tenne scrupolosamente per decenni, dal 1923 fino a pochi giorni prima del suicidio, 24 ore dopo quello del suo Führer nel Bunker di Berlino, il primo maggio del 1945.
Come ben spiega Longerich, Goebbels stesso si rende, con tale mole di materiali, responsabile in prima persona della più dettagliata cronaca degli avvenimenti e dei retroscena attraversati dalle massime gerarchie della dittatura nazionalsocialista. Il problema è però il fatto che una così accurata documentazione, che il Reichsminister si fece addirittura scrupolo di conservare integralmente su microfilm prima del crollo del regime, è costruita appositamente per offrire un’immagine lusinghiera del protagonista, per esaltarne l’importanza e il carattere nel contesto dei fatti e, in qualche modo, per esibirne la drammaturgia fatidica come un attore sulla scena. La difficoltà maggiore per lo storico è dunque quella di saper scremare e discriminare fra realtà e finzione, correggere la prospettiva soggettiva – nel caso di un narcisista patologico come Goebbels, addirittura solipsistica – della visione e ricondurre con fatica il cronista a una obbiettività non auto-rappresentativa.
Longerich si discosta dalle interpretazioni correnti su Goebbels che tendono a rappresentarlo da un lato come machiavellico propagandista, cinico, perspicace, orditore convincente di campagne alle quali è troppo intelligente per credere lui stesso; dall’altro come intellettuale frustrato, pieno di complessi di inferiorità, pedissequo esecutore della volontà di Hitler, mistificatore fanfarone e spesso sempliciotto. In realtà la personalità di Goebbels è più complessa, e in questo senso più mostruosa, non corrisponde a nessuna delle due immagini contrapposte e contemporaneamente le compendia e le sintetizza entrambe.
Il motore della vita di Goebbels fu essenzialmente un bisogno mai appagato di approvazione, un egocentrismo narcisistico di natura patologica, qualunque fosse il ruolo interpretato sulla scena pubblica: intellettuale e scrittore fallito divenuto agitatore del movimento nazionalsocialista ai suoi albori nella Repubblica di Weimar degli anni ’20; potente ministro della Propaganda di regime, normalizzatore e arbitro della Gleichschaltung successiva alla presa di potere del 1933, censore e guida dei mass-media, della vita culturale, dell’opinione pubblica del Reich negli anni ’30; massimo propugnatore e artefice della “guerra totale” negli anni ’40. Un camaleonte anche negli abiti di scena indossati: giacca di pelle o impermeabile consunto da proletario, nella prima fase; completi ricercati di sartoria o tenute sportive, nella seconda; stretta uniforme del partito nella terza.
Secondo Longerich il narcisismo estremo e la brama spasmodica di fare carriera non sono dovuti a una compensazione dell’handicap fisico (il famoso piede caprino che mascherava con speciali e dolorose calzature) o della provenienza da un oppressivo ambiente piccolo-borghese, ma risalgono a un rapporto affettivamente squilibrato con la madre già nella primissima infanzia. L’immagine del giovane solitario, sconsolato e misconosciuto è una fantasia letteraria autocostruita: in realtà la sua infanzia e giovinezza a Rheydt furono felici e non problematiche, ebbe amicizie e amori, oltre a studi universitari regolari che gli assicurarono il titolo di dottore. È vero invece che il fallimento delle sue ambizioni letterarie e giornalistiche – per incapacità personale e per mancanza di un background formativo borghese – lo condussero all’attivismo politico, prima nei gruppi nazionalisti Völkisch, poi, riconosciuto in Hitler il messia politico che aveva sostituito il Cristo cercato dal giovane cattolico, nella NSDAP.
Il rapporto con Hitler fu assoluto e Gobbels si schierò sempre incondizionatamente dalla sua parte, rischiando di inimicarsi le SA contrarie all’alleanza con le forze conservatrici, prima nel conflitto del 1932 con Gregor Strasser e l’ala “socialista” del partito e poi nella “notte dei lunghi coltelli” del 1934, ma il Führer non sempre ricambiò questa dedizione (anche se lasciò abilmente intendere di farlo): il controllo concesso a Goebbels sui media e la cultura popolare non fu assoluto come nella sua autorappresentazione: sulla stampa ad esempio molte competenze restarono in mano a Otto Dietrich, capo dell’ufficio stampa del Reich e a Max Amann, Reichsleiter per l’editoria, e la Wehrmacht ebbe sempre un proprio apparato propagandistico separato; dal 1938 Goebbels fu costretto a dividere le competenze in materia di propaganda all’estero con il ministero degli Esteri in mano all’odiato Ribbentrop e dal 1941 quelle per i Territori orientali occupati con l’altrettanto odiato Rosenberg. Hitler inoltre lo informò sempre delle principali decisioni politiche a fatti compiuti, Goebbels non fu mai un consigliere – come avrebbe voluto e come si illudeva di essere considerato – ma un mero esecutore: restò ad esempio all’oscuro fino all’ultimo della repressione delle SA nel 1934, dell’intervento tedesco nella Guerra civile spagnola nel 1936, del patto Molotov-Ribbentrop nel 1939, e dell’attacco all’Unione Sovietica nel 1941.
La sua dipendenza psicologica ed emotiva da Hitler riguardava anche la vita privata e familiare. Il rapporto fra lui, la moglie Magda e Hitler era un vero e proprio ménage à trois: Hitler, innamorato di Magda, aveva stilato un patto coi due concedendo loro di sposarsi nel 1931: fu testimone di nozze (Goebbels ricambiò il favore al macabro matrimonio nel Bunker fra il Führer ed Eva Braun) ed era considerato un membro della famiglia in stretti rapporti con i loro figli (i cui nomi iniziavano tutti con una H). Magda passava intere settimane ospite da sola a casa di Hitler e Goebbels annotava succintamente nei suoi diari le trasferte come “fatti spiacevoli ma inevitabili”. Il dittatore impose al suo ministro, quando questi nel 1938 manifestò la volontà di divorziare, di lasciare l’amante – l’attrice cecoslovacca Lida Baarova – e dettò ai coniugi le condizioni per la prosecuzione forzata del loro rapporto; a Magda poi proibì nel 1943 un intervento al volto temendo che potesse deturparla. In cambio di questo rapporto morboso i Goebbels ebbero notevoli vantaggi economici, di carriera e di prestigio. A Hitler dovevano tutto. Non stupisce quindi il tragico finale di un suicidio collettivo che coinvolse la coppia e i sei figli ancora bambini: nessun membro della famiglia doveva sopravvivere alla morte del Führer.
Il problema di quali fossero le reali idee politico-programmatiche di Goebbels, i suoi principi di massima ideologici, resta per Longerich un enigma. Il passaggio dalla sinistra alla destra del partito, secondo le convenienze, il feroce antisemitismo da cliché, la retorica della Volksgemeinshaft, nacquero essenzialmente da un ressentiment verso l’establishment colto e borghese che aveva ostacolato negli anni ’20 la sua ascesa sociale. Fu solo in funzione del proprio successo personale che usò strumentalmente, senza porsi prospettive, l’ideologia, tanto da rallegrarsi ciecamente dei propri trionfi posteriori al 1942 nella progressiva scalata al potere sul fronte interno, senza minimamente considerare che doveva questa seconda travolgente carriera (aver superato nelle grazie di Hitler i rivali di sempre, Göring, Speer, Himmler; aver ridotto Bormann al rango di un segretario) solo all’andamento sempre più catastrofico della guerra, una guerra che avrebbe presto condotto la Germania nazista e i suoi demagoghi a una definitiva e totale Götterdämmerung. Quale uscita poteva restargli in fondo se non il suicidio? Come conclude Longerich: “Alla fine l’illusione, la menzogna in cui era vissuto, aveva vinto”.