Sono gli anni Settanta. Il Figlio peggiore, romanzo inchiesta di Peter D’Angelo e Fabio Valle, vuole far luce sui circuiti oscuri e segreti dello spaccio di droga negli ultimi decenni del Secolo Breve. Un generale, un onorevole e altri due uomini, a un tavolo bianco di decisione presso il Ministero della Difesa, discutono sul da farsi davanti a un documento altamente riservato. Un’operazione che mira non solo a creare tensione sociale ma anche responsabili ad hoc, in un gioco macabro ed efferato tra fazioni politiche opposte e senza scrupoli. La manipolazione di informazioni e, soprattutto, la circolazione appositamente concordata e l’uso di sostanze stupefacenti sono veicolo di abusi di potere da parte dei vertici dello stato. “Il nocciolo duro che dobbiamo combattere sono gruppi extraparlamentari, di operai, giovani e giovanissimi, spesso di orientamento di sinistra”, afferma in tono perentorio il generale a quel tavolo attorno cui saranno decise le sorti dell’Italia.
Ancora un passo indietro. Gennaio 1970, una Piazza Esedra gremita di manifestanti e bandiere rosse. Carlo Nisticò, giornalista di punta, un tipo “schivo, intelligente, presuntuoso, intrattabile”, conosciuto e contestato per le sue idee anarcoidi e le sue discutibili abitudini private, si ritrova in mezzo al caos di una guerriglia civile tra molotov, lacrimogeni e gente che scappa spaventata mentre la celere prova a tenere sotto controllo la situazione. Carlo finisce chiuso tra due gruppi di teppisti minacciosi, un vero e proprio agguato. “Fascista di merda, ti ammazzo”: Carlo riceve una prima bastonata nel costato, a cui seguono pugni e calci. La situazione sta per degenerare quando, dal lato della strada, giunge una voce a fermare gli attacchi, Luca Zanassi, il Roscio, che si scoprirà essere un nome in codice e che, a fatica, grazie alla sua mole, riesce a fermare la rappresaglia verso Carlo. Luca, dopo lo scontro, cercherà di braccare Carlo per imparare, almeno apparentemente, a fare il giornalista. E lo affiancherà per tutta la storia. La sua improvvisa sparizione lascerà molti dubbi sulla sua figura e aprirà scenari imprevisti sia sul vero ruolo di Luca che su molti altri personaggi.
«Quelle pasticche, erbe, essenze, prese in strada, in farmacia o da un amico di ritorno dal Pakistan, stavano cambiando le persone, il modo e il mondo in cui vivevano»: la droga, in quel preciso momento, nel frangente postbellico, successivo al boom economico, stava trasformando in peggio la società ma, trattandosi di un fenomeno non controllabile e non misurabile, non c’erano dati sufficienti per poterlo stimare con precisione. La storia, ricostruita lentamente, sembrava “bucata”, lacunosa, perfino per chi si scervellava per poterla capire, anche a costo della propria incolumità; come Carlo che, negli anni, aveva affinato l’intuito di comprendere le ragioni non esplicite alla base dei fatti. Eppure, da un po’, i suoi interessi si erano spostati dalla politica alla droga, dalle inchieste di cronaca a quelle sulle sostanze stupefacenti, su come alcuni farmaci potessero diventare veleni e rubare la vita alle persone. Ma in quell’interesse per l’argomento, così forte da levargli il sonno, c’erano anche dei motivi personali.
Un linguaggio disinvolto, quello dei due autori, anch’essi giornalisti, per narrare una vicenda piena di retroscena, sospetti, verità negate, molto italiana (ma con risvolti internazionali) e ancora poco storicizzata. Una vicenda in cui troviamo anche sfaccettature amorose, incontri passionali e le strane trame della vita dei protagonisti, e che s’incastra con quella del tessuto sociale e degli eventi passati alla storia. Anni di piombo, di dolce vita romana che si sporca facilmente di sangue, anni di manifestazioni e pestaggi, feste con divertimenti ad alto rischio, loschi giri di frequentazioni, violenti blitz antidroga e molte questioni irrisolte.
È il 1973 quando l’Operazione Blue Moon è già alla sua prima fase di esecuzione, con la distribuzione programmata della droga sul territorio italiano e la gestione del relativo mercato nero da parte dei servizi segreti, con il benestare della politica interna. In questo scenario, la strategia della tensione e la veicolazione del flusso di informazioni si sono dimostrate focali. La droga, però, a volte ha anche l’aspetto e il nome di sostanze legalmente immesse sul mercato dalle industrie farmaceutiche; sostanze che, tuttavia, nascondono i relativi effetti di assuefazione. E i tossicomani, al di là delle narrazioni istituzionali, non sempre sono dei criminali: molte volte sono persone normali che non si accorgono di fare abuso di sostanze che possono portarli perfino alla morte. Innocenti che si fanno del male e che non ricevono la dovuta attenzione e la necessaria tutela. «Ciò che aveva scoperto cambiava tutto: la droga non andava fermata, ma controllata, distribuita, per spingere giovani ignari a consumarne sempre di più, fino a distruggersi»: ecco che la fragilità di alcuni diventa il potere di altri.
Roma viene sapientemente ritratta in una toponomastica segreta e oscura, costellata da fatti di cronaca, retate di polizia, luoghi di spaccio e malavita, raduni politici e guerriglie. Una Capitale non tanto diversa da quella di adesso, in cui ogni quartiere ha la sua identità criminosa segreta. Le stazioni della droga vengono scandagliate con precisione, ciascuna con le sue caratteristiche e i suoi prodotti: piazza di Campo de’ Fiori al centro, piazza Quadrata, col Piper a due passi, via dei Castani a Centocelle, piazza Bologna, la Balduina, Monteverde, Boccea, Montesacro erano i principali punti dello spaccio nella Capitale.
Una corsa a ostacoli di Carlo verso la verità, ammesso che di verità – effettiva e non solo giudiziaria – ce ne sia una sola. L’alternativa, a volte sanguinaria, tra informazione e controinformazione funesta le coscienze: a chi si può ancora credere? «Nei sistemi democratici, il controllo e la manipolazione dell’informazione è fondamentale, come fondamentale è saper sfruttare gli elementi già interni alla società che fanno presa sulla gente. Ora, sappiamo tutti che la droga svolge un ruolo fondamentale nell’ideologia di certe frange giovani ed estremiste. Per questo si è offerta subito come un elemento perfetto su cui concentrare l’attenzione dei media per orientare l’opinione pubblica e avere mano libera per intervenire, reprimere e correggere»: così, retorica e narrazioni, idee e manie di onnipotenza hanno tinto di nero un periodo già lugubre della storia italiana.
Nessun eroe, molte vittime e tante responsabilità personali e diffuse. Una storia che lascia l’amaro in bocca ma che, nonostante le questioni irrisolte, continua a raccontare i legami tra criminalità e stato e la preoccupante confusione tra la gente comune e la malavita. «Se viviamo nella pace, nella comodità, abbiamo acqua calda, benzina, elettricità, case e letti in cui dormire, è perché gente come me si sporca le mani per tenere pulite (le mani degli altri, ndr)», commenta alla fine del libro uno dei principali artefici dell’operazione Blue Moon, lasciando al lettore, al cittadino, a ogni individuo il compito di cercare di capire cosa sia, di fatto, la giustizia. Si può concludere con la precisa, seppur dolorosa, riflessione di W. Benjamin sulla violenza: «Ma riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che si può chiamare dominante. Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che la serve. La violenza divina, che è insegna e sigillo, ma strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa». La critica sulla violenza, insomma, al di là delle ideologie personali, rimane un bagaglio necessario della società.