Se fosse Proust ai giorni nostri Peter Cameron avrebbe nel suo carnet le stesse mitologie, adeguandosi alla noia di giorni e stagioni americani, disperatamente mortali per le sue figurine umane, sospese nei moduli acquatici di Carver, e nelle scene di smalto composte da Hockney. È un caso un po’ speciale di questi tempi che affidano l’esclusiva al rombo dei suoni iper-surround dilaganti perfino nei notiziari TV. Le chiacchiere dei personaggi immersi nei racconti di Cameron seguono ritmi rarefatti, tengono a freno ogni spasimo umano, il che non vuol dire che piccole e grandi tragedie non si consumino e non inchiodino con affilati spilloni le figurette che cercano dignità e qualche brandello di salvezza. Angosce e lievi eccentricità trovano anche nell’empatica traduzione di Giuseppina Oneto (la quasi totalità dei titoli dello scrittore statunitense in Adelphi si avvalgono del suo lavoro) la vera natura dell’opera originale: l’ibrido sapore dell’inatteso.
Da qualche parte ci si interroga se preferire un bicchiere di champagne al bacio di fraterni amici, con dialoghi che sarebbero piaciuti a Michelangelo Antonioni. Da qualche parte un uomo preferisce far credere alla moglie di avere una relazione anziché confessarle di tenere nascosta una cagnetta in cantina. Da qualche parte una donna si tuffa ogni giorno nella piscina dell’ex marito mentre i figli tengono il segreto. Trenta vasche ogni giorno “non hanno mai fatto male a nessuno”: forse giornate in cui niente di pericoloso può accadere, ma in quelle atmosfere di nebbiosità contemporanea tutti sembrano sul punto di un affogamento psichico. In ogni racconto degli undici presentati in questa raccolta, uomini e donne, vecchi e adolescenti si aggirano nell’acquario dell’indifferenza ostentata messa in conserva come nei vasetti Campbell’s. Una zuppa dove drammi e dolori vengono immersi dalla prosa di Cameron dentro un mondo di dinamiche disfunzionali e giorni in cui ci si può aspettare brutte sorprese.
D’altronde le ottiche usate dallo scrittore ci hanno abituato a memorabilia kubrickiane, dove il disvelamento della storia procede per lentezze ondivaghe, da Andorra a Coral Glynn i confini nascondono oscuri veleni mai nominati, ma sempre racchiusi nel riserbo. Le cose che succedono durante il giorno sono spesso più sottilmente micidiali, i loro effetti vengono rimandati a un futuro in cui un virus (mentale, umano) sembra scomparso ma che invece elargisce eredità d’insidie inedite. Potessimo avere accanto Cameron, parleremmo di guai sentimentali, e di quel che può succedere alle persone che in vecchiaia vengono allontanate da casa, o di quanto siano ipocrite le belle parole usate nei viaggi fra un aeroporto e l’altro: ognuno tiene alla propria “cassetta di sicurezza” ma affondandola sempre di più nei sotterranei della propria psiche. L’esclusiva di scheletri, deserti, o miti residenze campagnole (le più funeste) si addensa in sceneggiature blindate, da cui non si esce e in cui ogni brindisi ha il sapore metallico diffuso dai Network d’Oltreatlantico.
È il palcoscenico inesorabile messo su da Cameron, guardando agli abbandoni casalinghi – ma depurati dei toni sanguigni – su cui James Cain ha costruito la sua fortuna. Le Grandi Depressioni hanno storie diverse, d’altronde un secolo è passato e il mondo si è ristretto, e gli umori cosmopoliti sono passati dal valium all’MDMA. Cameron ci immerge nel pathos vischioso di queste creature (meno letterarie di quanto si possa pensare) stazionanti sempre sul bordo di qualcosa di minaccioso. Sono racconti dove comanda lo stallo, e che rivelano un esteso scomodo dissesto. Brividi minimalisti, cose che la ferocia tenuta a bada prima o poi occuperà l’interezza della scena.