Pessimismo sostenibile

R. Buckminster Fuller, Manuale Operativo per Nave Spaziale Terra, tr. Vince De Dato, Il Saggiatore, euro 21,00 stampa, euro 9,99 epub

C’è stato un momento, alla fine degli anni Sessanta, in cui sembrava che le possibilità umane potessero estendersi oltre ogni confine, che fosse possibile una espansione infinita della conoscenza e del progresso che avrebbe portato in pochi anni a un netto miglioramento del tenore di vita di tutta l’Umanità. In questa atmosfera di inguaribile ottimismo spiccava l’intelletto e la proposta teorica dell’Architetto e Inventore statunitense R. Buckminster Fuller, alias “Bucky” Fuller, pronipote della scrittrice Margaret Fuller, morto nel 1983, che qualcuno ha definito “l’uomo che ha sognato il Ventunesimo secolo.”

Quella di Fuller è una tipica storia americana: iniziò la sua carriera come semplice operaio in una ditta di inscatolamento carni, poi negli anni Venti si mise in proprio e fondò una società di costruzioni, la Stockade Building System, che però ben presto fallì. Disperato e senza un soldo, R. Buckminster Fuller si ritrovò un giorno a 32 anni, a passeggiare da solo lungo le sponde del Lago Michigan, contemplando il suicidio. La sua azienda era fallita, sua figlia Alexandra era morta di polmonite e il giovane imprenditore non vedeva alcuna prospettiva nel suo futuro. Ma mentre rimuginava queste sue idee suicide, fu colto da un’illuminazione: avrebbe trasformato la sua vita in un esperimento, avrebbe concentrato tutti i suoi sforzi nell’impresa di migliorare il mondo, di inventare qualcosa di cui avrebbe beneficiato l’intera Umanità.

Questo suo sogno cominciò a realizzarsi quando Fuller accettò un incarico presso il famoso Black Mountain College, in North Carolina, allora una fucina di nuove idee, che ospitò a partire dagli anni Trenta alcuni transfughi del Bauhaus tra cui l’artista e designer Josef Albers, e che fino agli anni Cinquanta ospitò molti architetti – tra cui lo stesso Fuller – artisti e poeti che rivoluzionarono l’architettura e le arti visive, e contribuirono alla nascita e all’evoluzione di alcune delle più importanti avanguardie americane. Al Black Mountain College studiarono e insegnarono alcuni celebri poeti, architetti e designer tra cui Charles Olson, l’autore di Call Me Ishmael (1947), che cercava una via di uscita americana dal Modernismo di Pound ed Eliot, Robert Rauschenberg (Pop Art), John Cage, Merce Cunningham, Cy Twombly, Willem de Kooning (Action Painting), Robert Creeley, Kenneth Noland, Robert Motherwell, Franz Kline. Fin dalla sua nascita il Black Mountain fu un centro sperimentale con un approccio fortemente interdisciplinare.

L’attività di Fuller come architetto al Black Mountain College e poi nella sua carriera successiva, ha introdotto delle novità dirompenti nell’architettura contemporanea, come il concetto di unità geometrico-abitative, di case a schiera o addirittura palazzi interi che si possono realizzare unendo insieme elementi componibili, la possibilità di costruire degli edifici moderni assemblando varie unità geometriche fino a formare un unico grande solido.

È il caso delle celebri “cupole geodetiche” di Fuller, delle strutture che riprendono la forma geometrica dell’icosaedro troncato, il solido sfaccettato che più si avvicina alla forma sferica, composto da esagoni e pentagoni, oppure alternando triangoli ed esagoni. Le cupole geodetiche ideate da Fuller furono realizzate e riprodotte nel giro di pochi anni in tutti gli Stati Uniti e nel Mondo. Uno degli esempi più caratteristici di architettura fulleriana è la celebre cupola dell’Expo di Montreal del 1967, oppure il celebre Eden Project in Cornovaglia, composto appunto da una serie di serre che riprendono la forma delle cupole geodetiche. Dalle cupole geodetiche di Fuller derivano le strutture dei moderni osservatori astronomici o dei moderni osservatori radar, come le grandi cupole di Echelon in Inghilterra, che intercettano le conversazioni e le email in tutto il mondo.

Bucky Fuller aveva una visione globale dei problemi dell’Umanità ed era convinto che per risolvere questi problemi avremmo dovuto imparare a pensare in grande, su scala globale.

Egli si scagliava contro il concetto di sovranità dei singoli stati e contro il nazionalismo, il razzismo e il fanatismo religioso, fonte di tutti i mali. Se consideriamo i danni che ancora oggi questo atteggiamento duro a morire produce in un contesto globale dove invece i problemi sono sempre più interconnessi, non possiamo che dargli ragione. Fuller era anche convinto che ci fossero abbastanza risorse per tutti, ma su questo aspetto particolare del suo pensiero i successivi studi sui limiti dello sviluppo lo hanno smentito clamorosamente. Le nostre risorse energetiche e alimentari non sono affatto illimitate. Ciononostante, l’intuizione di Fuller che i problemi ambientali andrebbero affrontati in una prospettiva globale ha dato il via a quell’ambientalismo scientifico che ha avuto in Lester Brown e nel World Watch Institute, con i suoi report annuali sullo stato di salute del mondo, il suo più autorevole punto di riferimento.

Bucky Fuller lottava dunque contro la specializzazione dei saperi. Giustamente faceva notare che anche nel mondo animale, quando una specie si iperspecializza, il rischio di estinzione aumentava in modo esponenziale: ed è questo il pericolo che corre la specie umana. Spesso lo specialista non è in grado di avere una visione d’insieme dei problemi; chi si specializza in modo eccessivo su un argomento arriva a sapere tutto su quell’argomento specifico, ma perde di vista il quadro generale. Dunque l’intellettuale che vive nella nostra epoca contemporanea non può essere uno specialista. L’intellettuale deve riuscire a cogliere il senso generale di ciò che sta accadendo nel suo paese e nel mondo, deve intuire prima di altri in quale direzione stiamo andando.

Secondo Fuller coloro che erano in grado di giungere a questa visione d’insieme della società e di dove questa società si deve indirizzare, erano gli architetti pianificatori, i grandi architetti e i grandi urbanisti che sarebbero dovuti diventare gli alfieri di quella che Fuller definiva come “la grande rivoluzione progettuale”. Certo il visionario ottimista Fuller non avrebbe mai potuto immaginare che l’artefice della più grande risposta contro la globalizzazione, il capo del commando terrorista che avrebbe attaccato le Torri Gemelle l’11 Settembre 2001, sarebbe stato un architetto specializzato in pianificazione urbanistica, Mohammed Atta.

Perché è importante dunque leggere e rileggere il libro di Fuller, Manuale Operativo per Nave Spaziale Terra, ormai così utopistico, così lontano dal nostro atteggiamento contemporaneo, in cui tutti sospettano di tutti, in cui non esiste più alcuna spinta che ci proietti verso il futuro? Leggere o rileggere il Manuale Operativo può aiutarci, al netto dell’ottimismo di Fuller che non è più il nostro, a trovare nuove soluzioni per salvare il pianeta, per tornare a discutere appassionatamente di scelte produttive e industriali che tengano conto dell’impatto ambientale, per operare l’auspicata svolta verso la Green Economy, il Green New Deal e l’Economia Circolare. Tutto questo lo faremo non più illudendoci – come faceva Fuller – che inventando nuovi termini potremo cambiare il mondo, anche se alcuni dei suoi neologismi hanno avuto un successo incredibile (basti pensare a una delle sue parole preferite: “sinergia”). Non basta cambiare le parole per introdurre elementi di novità nella nostra vita di tutti i giorni, ma riprendendo la consapevolezza di Fuller che dobbiamo ricominciare a pensare globalmente, come recita un vecchio slogan ambientalista, per poter agire localmente.