Peské Marty / Sconfinati sentieri sotto il cielo della letteratura

Peské Marty, Qui il sentiero si perde, tr. di Daniele Petruccioli, Adelphi, pp. 446, euro 24,00 stampa

Occhi aperti su questo libro e sugli immensi spazi di un lontano Est, su cui personaggi valorosi e intrepidi straccioni viaggiano contrapponendosi a quel che noi occidentali (ben poco immaginifici) abbiamo sempre visto e adorato nel Far West d’oltreatlantico. Dall’Ucraina alle pianure siberiane il lettore è condotto nei diecimila chilometri della vecchia Russia, quando ancora i treni non c’erano e uno zar, Alessandro I, si perde e si riprende in queste contrade, forse morto e forse no, dove la leggenda è in gran lustro con l’apparizione di donne bellissime e lascive, santi e messia di dubbia accortezza, schiavi monaci e egumeni, tutti alle prese con fango e frutta che sa di cenere, con rocce minacciose e trappole brulicanti, e molto molto sangue. La leggenda racchiude in sé uno zar che non muore nel 1825 ma abdica e sparisce nei vertiginosi spazi russi. La inserisce nella propria immaginazione Antoinette Peské – discendente di principi mongoli – che dopo aver scritto poesie che piacevano a Apollinaire e un romanzo (fra i tanti) abbastanza noto come La scatola d’osso, con il marito Pierre Marty firma Qui il sentiero si perde con lo pseudonimo di Peské Marty. Molti si chiedono quanto della fascinazione del romanzo sia dovuta davvero a Antoinette rispetto a Pierre. Ma poco importa, si aggiunge, subito dopo esserselo chiesto. Il Sentiero venne pubblicato da Gallimard nel 1955 nella quasi indifferenza generale e ripubblicato da Phébus una trentina d’anni dopo. Ora è qui, in Adelphi, con la meritoria traduzione di Daniele Petruccioli che segue da par suo le “infiorescenze” linguistiche del testo. E non possono non destare ammirazione e simpatia queste sue parole: “La traduzione è l’arte dell’ascolto e della lettura (son cose stranote, da Gadamer a Calvino) e in Qui il sentiero si perde, secondo me e chi mi ha revisionato in casa editrice, ci voleva da un lato una precisione filologica incrollabile, dall’altro la destrezza di mano di un tombarolo”.

La vita segreta di un vagabondo, chiunque egli sia, ci trasporta su terre spoglie e cieli spenti, dove le insidie sono ovunque, geografiche umane e disumane – molti e variegati i fantasmi che si presentano in forma di santoni e bodhisattva e di donne dal corpo fiammeggiante e dall’anima vagante. Sarasya schiava figlia di schiavi, prostituta, e l’impudica Maluzia, ora dolci ora violente alla maniera delle belle di Samarcanda, e uomini a cui prestare attenzioni anche sessuali. Carovane tartare e cinesi fanno parte dell’avventura, in cui devono esserci armi e effetti astuti, pena la più straziante delle morti per torture. La vita dello schiavo può dividersi fra mostri aguzzini e ambizioni di libertà, ma nel caso del protagonista una ragazza selvaggia con cui “rotolarsi nella polvere” alimenta un’impresa ai limiti del possibile. Tanto che cuore, bellezza, allucinazioni e armi conducono a possenti massicci geografici e mentali dove chi è vivo può essere morto e i morti tornano sempre alla carne viva di chi vuol credere di possedere quella forza che serve a varcare i confini. Essere proprietà di qualcuno, spettro o uomo, o donna di carne palpitante, non fa differenza per lo schiavo trasformato in vagabondo, in esule o anima credente nel Cristo biblico e nello sprofondo buddhista per resistere ai demoni.

Il prezzo della libertà si assaggia lungo ogni pagina delle quattrocento e più che compongono il Sentiero, poiché la via è sempre più rappresentata: dalla violenza on the road al misticismo delle terre d’Oriente, alla ricerca di un contatto ora ambiguo ora saturo di vitalismo ancestrale. Amori uniti in diversi generi e condizioni “sociali” s’intrecciano mentre il protagonista – multi-anime – avanza fra alberi, paludi, steppe, prime nevi e freddi intensi quando le provviste si esauriscono e i lupi vagano come seguaci di fantasmi che talvolta si presentano benevoli e talvolta micidiali. “Chi è quest’uomo?” – nell’epilogo qualcuno nomina il defunto zar, in una fin troppo romantica fuga ai confini estremi della verosimiglianza, e tra bare vuote e leggende di angeli salvatori rende a noi – postumi del Novecento – la felicità di un racconto più estremo del Milione o L’isola del tesoro, che ci raggiunge dalle nebbie adolescenziali in cui si sognava con Michele Strogoff e che oggi scalfisce senza dubbio le sempre più scricchiolanti certezze dell’età adulta.