Persi nelle foreste del nord

Annie Proulx, Pelle di corteccia, tr. Silvia Pareschi, Mondadori, pp. 798 , €24 stampa, €11,99 ebook

recensisce SARA TOSETTO

È la foresta del mondo. È infinita. Si attorciglia su se stessa come un serpente che si ingoia la coda, e non ha né inizio né fine. Nessuno ha mai visto i confini più lontani.

A parlare è Monsieur Trépagny, uno dei primi, spregiudicati avventurieri francesi a comprendere le vere ricchezze offerte dalle sterminate foreste vergini della Nuova Francia (il futuro Canada francese) alla fine del ‘600. Il territorio da poco scoperto non offre solo pellicce pregiate di castoro ed ermellino ma legname a volontà – legna per costruire case, mobili, navi, utile anche come combustibile. E poi terra: da coltivare e da addomesticare, un immenso territorio che occorre “liberare” dall’oscuro giogo della natura selvaggia. Inizialmente, Monsieur Trèpagny sembra capire e temere quell’immenso animale selvaggio che è la foresta primigenia, anche perché per praticità adotta costumi e leggende degli indigeni mi’kmaq, che non cercano di piegare la natura alla loro volontà; ciò nonostante a muoverlo sono una cupidigia crescente e una crudeltà che appaiono senza fondo, proprio come le foreste – una risorsa che sembra esistere da sempre e
per sempre solo per essere sfruttata dall’uomo.

Nel giro di appena una generazione questo universo di verde oscurità lascia spazio allo squallore delle terre coltivate tra i ceppi e da un orizzonte sempre più spoglio. I nuovi protagonisti sono gli eredi ideali di Trépagny, i suoi due lavoranti René Sel e Duquet, che daranno vita a due dinastie destinate talvolta a incrociarsi tra loro e a durare fino ai nostri giorni. La famiglia di René diventa custode della componente più “ambientalista” (non a caso, René sposerà l’indigena Mari, un tempo al servizio di Trépagny), mentre Duquet e i suoi eredi vedranno nella natura solo un mezzo per arricchirsi, arrivando a incarnare il lato più avido e interessato ai profitti già presente in Trépagny.

Nella prima parte del romanzo, Proulx è abile a calare il lettore nell’ambiente primigenio che inghiotte i personaggi e a presentare il personaggio principale, incredibilmente vivido nella sua natura sempre più spregevole e meschina, oltre che nel suo delirante sogno di ricreare una piccola Francia in mezzo alla foresta, dove finalmente può essere indiscusso signore e padrone. Man mano che la foresta viene addomesticata dall’uomo e i personaggi allentano il loro legame con essa, anche la narrazione sembra perdere progressivamente il suo fascino. Duquet viene descritto con insistenza come il prototipo, per non dire lo stereotipo, del mercante furbo e alla fine spietato (farà sua la crudeltà barbara che tanto aveva criticato nel suo seigneur e verrà duramente punito), mentre l’ingenuo René lascerà la scena ai suoi numerosi figli meticci, e ai figli dei loro figli, per diverse generazioni. A parte qualche felice eccezione, il lettore si trova di fronte a una sfilza di nomi destinati a ritirarsi rapidamente dal palcoscenico della narrazione per far posto ad altri, prima che si abbia avuto modo di interessarsi alle loro vicende.

Nonostante le lodevoli intenzioni, a Pelle di corteccia manca la cruda efficacia degli scritti migliori di Proulx, come il romanzo Avviso ai naviganti (vincitore dei più prestigiosi premi letterari USA e recentemente riproposto da minimum fax) e i racconti che l’hanno resa famosa (a partire dal celebre I segreti di Brokeback Mountain). Se Proulx non dimentica di inquadrare efficacemente ciascuno dei suoi numerosissimi personaggi almeno con un dettaglio caratteristico, rischia di lasciare troppo poco all’immaginazione del lettore, concentrandosi su eventi che si dipanano in modo sempre più monotono, spesso didascalico. È come se Proulx presentasse in modo quasi scolastico le numerose, interessanti nozioni sugli indiani, anziché integrarle in modo profondo e originale nel tessuto del romanzo. Il risultato è una narrazione che si fa sempre meno coinvolgente, mentre i fatti vengono detti, più che mostrati.

Colpisce in particolare il racconto della vita dei nativi, che non risulta particolarmente evocativo – specie in confronto al maestoso racconto di William Vollmann in Venga il tuo regno (anch’esso in parte incentrato sulla colonizzazione del Canada), che rievoca la vita fuori dal tempo degli indiani mi’kmaq e l’inesorabile disintegrarsi di generazioni e popoli all’incendio perpetuo della Storia.

L’autrice sottolinea più volte che René e i suoi discendenti vengono trasportati dagli eventi come “foglie cadute in acqua e trascinate dalla corrente”, ed è chiaro che si propone lo scopo ambizioso di far sparire le misere vicende umane di fronte alla storia del bieco sfruttamento della natura nel corso dei secoli, e dei mali che ne derivano. Il suo è un messaggio dettato da un’esigenza ben più alta di un banale omaggio al politically correct, soprattutto se si considera che Proulx ha profuso molto tempo e impegno nella stesura del romanzo e nelle ricerche necessarie a scriverlo. La perdita del legame tra uomo e natura va di pari passo con la perdita del legame con la letteratura: è dalla natura che l’uomo proviene, da essa ha tratto le prime metafore, il germe del pensiero creativo. La foresta, in particolare, ha una valenza originaria nella cultura occidentale: dalla selva oscura di Dante al bosco di pilastri delle cattedrali gotiche, tradizionalmente simboleggia il rapporto tra cielo e terra, umano e divino, immanenza e trascendenza. Dopotutto, come ricorda nel romanzo un mercante cinese a Duquet, gli scrittori hanno bisogno di sfruttare la natura per ricavarne i cosiddetti “quattro tesori degli studiosi […]: il pennello, l’inchiostro, la carta e la pietra da inchiostro, gli strumenti della carta calligrafica”; ma l’uomo occidentale sembra l’unico a non percepire “lo stato di armonia fra le persone e la natura”, che l’antica cultura cinese cercava di salvaguardare e riprodurre nei loro splendidi giardini.