Percival Everett / La conquista della parola

Percival Everett, James, tr. di Andrea Silvestri, La nave di Teseo, pp. 336, euro 20,00 stampa, euro 9,99 epub

«Qualunque cosa i bianchi non sappiano a proposito dei neri, rivela, con precisione inesorabile, quello che non sanno a proposito di se stessi».

Questa frase di James Baldwin, scritta in esergo di una lunga lettera comparsa su “The New Yorker” nel 1962, e interamente ripubblicata lo scorso mese, in occasione dei 100 anni dalla nascita dello scrittore, mi sembra il giusto esordio per raccontare James, il nuovo romanzo di Percival Everett. Un romanzo che parte da Mark Twain, da Le avventure di Huckleberry Finn, per raccontare in modo originale, intenso ma anche leggero, i complicati rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti.

Jim, prima di diventare James, è lo schiavo fuggiasco che il giovane Huck ritrova all’inizio della sua fuga lungo il Mississippi, che lo accompagna e lo protegge, che lo abbraccia quando lo ritrova, e che con le sue osservazioni intelligenti e le sue idee brillanti, oltre che con la sua generosità, lo aiuta a uscire dai guai. Ma Jim è anche colui che mette in discussione la morale con cui Huck è cresciuto: che gli schiavi sono schiavi per volontà di Dio, e che liberare uno schiavo è un peccato mortale. Perché Huck, con l’innocenza della gioventù e con l’ignoranza delle cose della vita, pensa che non sia giusto che Jim sia uno schiavo, che sia troppo simile a lui, che meriterebbe di essere libero.

Tuttavia nel romanzo di Everett il dilemma di Huck non ha molto spazio, perché il protagonista questa volta è Jim, non Huck. E la storia, pur conservando l’ambientazione, le circostanze e l’epoca, ha uno svolgimento completamente diverso. Del resto i 140 anni che sono passati dalla prima pubblicazione del romanzo di Twain sono anni di grandi cambiamenti nei rapporti tra bianchi e neri. Non mi sentirei di dire miglioramenti, anche se sicuramente è stata abolita la schiavitù e sono state fatte leggi e si sono spese tante parole sull’uguaglianza e la sua necessità. Il solo fatto che appena due anni fa si dovesse gridare lo slogan “black lives matter” dimostra che i passi avanti non sono stati sufficienti e che siamo ancora in una situazione a dir poco complicata. Oltre al fatto che il romanzo James è stato scritto da un nero e non da un bianco.

Ma la cosa più appariscente, e più dirompente, è la centralità del tema del linguaggio. Jim è uno schiavo colto, che ha letto di nascosto i saggi e i romanzi presenti nella biblioteca del suo padrone, e che ha imparato a parlare come parlano i bianchi, in un inglese corretto, preciso, formale, oxfordiano diremmo oggi. Ma riserva questo linguaggio alla sua famiglia, alla moglie e alla figlia, e alla ristretta cerchia di schiavi che frequenta e a cui ha insegnato i due registri e il loro uso. Con i bianchi parla quell’inglese scorretto, zoppicante, ingenuo e bambinesco, quello che i bianchi si aspettano da lui, quello che conferma la sua inferiorità “naturale” e il suo bisogno di qualcuno che lo comandi, lo guidi, lo educhi, lo punisca quando sbaglia. È chiaro che l’inferiorità attribuita agli schiavi (molto simile peraltro a quella attribuita alle donne per secoli) li rende incapaci di studio, di cultura, di apprendimento e di tutto quel che ne consegue. Persino con Huck, con cui c’è un rapporto di affetto, Jim non può parlare come sa e vorrebbe. Anche Huck con la sua umanità incerta, per quanto intuisca l’ingiustizia della schiavitù, non riesce a immaginare che Jim possa parlare come lui.

In James, Jim attraversa una trasformazione epocale, acquisendo la consapevolezza della sua condizione e dell’ingiustizia profonda, e insanabile, che la governa. Con la cognizione dei suoi diritti, Jim si rende conto anche della propria rabbia per la violazione di quei diritti. Una rabbia che decide di abbracciare e che gli dà un coraggio che non sapeva di avere, che forse non voleva neppure avere. Un coraggio che decide di vivere fino in fondo.

Ed è la parola, come strumento di pensiero prima che di espressione, è la conquista della parola che porta a quel coraggio e alle decisioni estreme. Del resto è la parola che ci distingue, che ci fa crescere, che fa capire cosa è giusto, che ci dà il coraggio di essere noi stessi. Che ci libera. E saranno infatti proprio le parole con cui Jim, diventato James alla fine del suo percorso verso la dignità, si rivolge al suo vecchio padrone, parole forbite, eleganti, eloquenti, che lasceranno quest’ultimo spiazzato, sconcertato.

Nella democratica e liberale Gran Bretagna, ancora oggi è il linguaggio, come pronuncia e come scelta delle parole, che distingue le classi sociali elevate dal “popolo”. E Pierre Bourdieu, ne La distinzione, sottolinea come in Francia, dopo il sessantotto e il fallimento dell’immaginazione al potere, il linguaggio sia ancora il più forte e il più tenace, tra quei comportamenti involontariamente imparati in famiglia, che condanna gli appartenenti alla classe dominata, per quanto brillanti, colti, preparati, a sentirsi sempre inferiori e un po’ impostori. Per non parlare dei talebani che vietano alle donne di parlare. Insomma in principio era il verbo, e poi il verbo resta e continua a caratterizzarci come esseri umani e a dare voce a discriminazioni e mistificazioni. Ogni tanto diventa strumento di emancipazione e liberazione. Ma a caro prezzo. Di questi tempi di declamata ignoranza, di tentazione di delegare alle macchine la conoscenza e la memoria, è un bel messaggio da raccogliere. E diffondere.