Perché scrivo?

Will Blythe (a cura di), In punta di penna. Riflessioni sull’arte della narrativa. Volume secondo, tr. Sara Bilotti e Luca Briasco, minimum fax, pp. 142, euro12,00 stampa, euro 6,99 ebook

Facciamo un passo indietro. Nel 1999 Will Blythe invita un nutrito gruppo di scrittori americani, tra cui Pat Conroy, Mary Gaitskill, Norman Mailer, Rick Moody, Terry McMillan, David Foster Wallace, Mark Jacobsen e altri a spiegare ai loro lettori per quale motivo si siano dati alla letteratura. I testi infatti vengono raccolti in un volume intitolato in inglese Why I Write, “perché scrivo”, come un ben noto saggio di George Orwell pubblicato nel 1946. Nel 2018 minimum fax pubblica una prima parte degli scritti in un volume intitolato In punta di penna, tradotto in tandem da Bilotti & Briasco; e quest’anno esce la seconda puntata – con l’omissione di quei testi che già sono stati pubblicati in traduzione altrove, come quello a firma di David Foster Wallace.

E allora, perché lo fanno? Perché a un certo punto della loro vita hanno cominciato a scrivere, e perché continuano a farlo? Un primo motivo di interesse per i lettori è scoprire, scorrendo questo volume secondo, che non c’è una sola risposta. Mark Jacobson, forse quello che mi è rimasto più simpatico, dice che lo fa per i soldi, con una disinvoltura che solo un americano può avere in questioni di denaro; Darius James (altro scrittore che mi ha ispirato un’irresistibile simpatia) arriva addirittura a quantificare le sue ragioni, dicendoci candidamente che cinquecento dollari erano ragione più che sufficiente per scrivere il suo pezzo.

Ma questa è solo una delle varie ragioni addotte dagli scrittori cui Blythe ha commissionato i brevi saggi contenuti in questo volumetto. Assai diversa quella di Rick Bass, secondo il quale “l’arte rende più intenso il modo in cui le emozioni e tutte le altre sensazioni vengono provate o immaginate”. O quella che propone Elizabeth Gilbert, secondo la quale la passione per la scrittura e il talento narrativo si ereditano lungo linee di discendenza famigliare, sono capacità, per così dire, che girano in famiglia e che si manifestano inesorabilmente, come una malattia ereditaria (fortunatamente benigna…). E leggendo uno scritto dopo l’altro ci si rende conto di come le semplificazioni, le generalizzazioni, le formulette a effetto tradiscano sempre la letteratura, di come non ci sia una ricetta, di come gli approcci alla narrazione scritta siano diversi e irriducibili gli uni agli altri.

È anche interessante vedere come la maggior parte di questi scrittori, di età diverse e di diversissimi retroterra geografici, sociali, culturali, intreccino la storia della loro vocazione, la loro passione per la narrazione, alle proprie vicende famigliari; nel modo più clamoroso lo fa Rick Moody, che ci presenta due testi in parallelo, uno nel quale parla lui, un altro, affiancato al suo, nel quale è sua madre – Margaret F.M. Davis – ad avere la parola. Una sorta di doppio discorso che vuole rendere conto di una vocazione, e per far questo deve anche ripercorrere la storia personale dello scrittore raccontata dalla genitrice. Ma non è lui l’unico a intrecciare storia della scrittura e della famiglia; lo fa anche la Gilbert, e Pat Conroy, rivelando fino a che punto il personaggio del suo romanzo The Great Santini è stato ispirato da suo padre.

E ora, il momento della vergogna. Confesso: dei dodici scrittori conoscevo solo Moody, e per fama, neanche per averlo letto. Conroy l’avevo incontrato senza saperlo, avendo visto anni fa il film tratto dal suo romanzo, Il grande Santini (con un impeccabile Robert Duvall), su qualche rete televisiva. Mi devo vergognare? Forse sì, però mi consolo pensando che questo volumetto dà una misura della vastità della letteratura americana. Mi è capitato di recente di sentire un critico blasonato dichiarare che la suddetta letteratura è sopravvalutata. Prima di dirlo bisognerebbe conoscerla bene, e per farlo non basta una vita. Anche in questo caso, andiamoci piano con le generalizzazioni.

Anche andando a curiosare nel primo volume di In punta di penna, vi trovo saggi di Richard Ford, William T. Vollmann, Joy Williams, Norman Mailer, Thom Jones, Mary Gaitskill, Mark Richard, Jayne Anne Phillips, Ann Patchett, Lee Smith, Terry McMillan e Tom Chiarella. Di tutti questi rispettabilissimi scrittori ho familiarità solo con Ford, Vollmann e Mailer. Lo ripeto: la letteratura americana è grande più o meno come il paese nel quale viene scritta e letta; è un territorio vastissimo e affollato. Non so se qualcuno dei miei colleghi americanisti riesca veramente ad averne una mappa mentale completa ed esaustiva; non so neanche se ce la facciano i critici americani, a seguire tutte le narrazioni che si pubblicano a casa loro.

Infine, un sospetto. Ma non sarà che minimum fax ha pubblicato questi due volumetti con la precisa intenzione di portare da noi qualcuno di questi scrittori, magari quelli che ancora non sono conosciuti nel nostro paese? Se così è, sono buone notizie per i lettori italiani. Di buoni libri non ce n’è mai abbastanza.