Paziente, fedele, quasi rassegnata: gli attributi che ci vengono in mente quando pensiamo a Penelope hanno a che fare con una stinta, placida docilità. La patina del tempo pare avere in effetti appiattito la figura del mito su un piano di casalinga arrendevolezza, arrivando persino a oscurare quell’astuzia degna del marito che permette alla regina di tenere lontani i pretendenti, mentre con destrezza tiene le redini della reggia, amministrandone il patrimonio in assenza di Ulisse. “Loro chiameranno lui coraggioso”: in un solo verso la poetessa statunitense Dorothy Parker negli anni Trenta seppe condensare il portato rivoluzionario delle visioni novecentesche, capaci di rileggere la classicità alla luce delle conquiste del femminismo. Nel medesimo solco – quello visionario e ardito di Ghiannis Ritsos, Oriana Fallaci, Luigi Malerba, Margaret Atwood – si inserisce la recentissima e alta riscrittura di Maria Grazia Ciani, La morte di Penelope.
La raffinata studiosa, avvezza alla frequentazione con le Variazioni sul Mito (a sua cura la luminosa collana di Marsilio che porta tale nome e che mostra la permanenza dell’antico nei testi della letteratura moderna e contemporanea), attinge a una versione laterale del racconto, quella della Biblioteca attribuita ad Apollodoro, e, ampliandola, la ripropone in un pregevole romanzo fatto di voci che si rincorrono.
Il dono di Maria Grazia Ciani consiste nell’abilità di fare tesoro della lezione dell’antico senza mai chiudersi in una torre d’avorio, senza mai rivolgersi esclusivamente agli addetti ai lavori: l’opera che la grecista ci consegna spicca infatti per l’autentica umanità dei personaggi, per la profondità dell’introspezione psicologica, per la poesia degli sguardi e dei silenzi. “C’è in Lei qualcosa di segreto, è come se custodisse una fiamma, qualcosa che non riguarda il Re ma Lei sola”. Nascosta da un velo che protegge la sua inespugnabile parvenza, questa Penelope irrequieta scopre in sé i segni di un sentimento che nasce e che la fa vacillare: il desiderio ha nome Antinoo – uno dei Proci è riuscito a vincere le resistenze della moglie devota, a colmare i vuoti che l’assente Ulisse ha lasciato incustoditi, a vedere la bellezza in una donna che la letteratura ricorda per altre qualità.
Così, se Ulisse si attarda con la bionda Calipso, la volitiva Circe e la fresca Nausicaa, se l’eroe si lascia ammaliare dal canto delle Sirene, sua moglie ha smesso di aspettarlo e, sebbene ancora insicura e guardinga, ha cominciato ad assecondare una inedita metamorfosi. “Nessuno immagina che in vent’anni io sia cambiata. Che questa malinconia, questa inquietudine, non sono per Lui. Non sono più per Lui”, confessa la regina, tessendo con le parole e con i pensieri di cui è prigioniera una tensione che la avvicina alle eroine tragiche – Fedra, Medea, Didone – nel momento in cui fanno i conti con i moti del cuore e sono costrette a dare un nome a un impulso che trasgredisce le regole.
Tradimento – risuona terribile la colpa, tanto più se a macchiarsene è colei la cui condotta è da sempre nell’immaginario comune associata all’incrollabile fedeltà. “Che cosa accade ai miti, a Penelope e Ulisse, e a noi?”, ci si chiede tra le righe. La letteratura intercetta un mutamento, lo rivela; il contemporaneo strappa la maschera alle ipocrisie, ne mostra l’inane inconsistenza. I miti possono essere rovesciati nel loro contrario, eppure permangono nella loro essenziale verità: benché questa Penelope altra si riappropri della sua sensualità e questo Ulisse dagli occhi impenetrabili sembri dimentico della complicità coniugale, i due personaggi continuano a dire qualcosa di noi, a essere impietoso specchio dei nostri limiti e delle fragilità che ci rendono inesorabilmente umani.