Philip K. Dick / Pellicola replicante, romanzo transmediale

Philip Kindred Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche, tr. Riccardo Duranti, Fanucci, pp. 269, euro 8,42 stampa

Ovviamente il romanzo non è quel che si definisce una novità, ma mi sento autorizzato a ragionarci su nella misura in cui l’uscita nelle sale di Blade Runner 2049 ha riacceso la discussione, che si articola su due versanti: prima di tutto se sia meglio peggio o cosa la pellicola “storica” di Ridley Scott o il sequel di Villeneuve; e poi che relazione ci possa essere tra questi due e il romanzo di Dick, pubblicato negli Stati Uniti nel lontano 1968 (anno fatidico quant’altri mai…). Vale allora la pena di spendere qualche parola su questa strana costellazione di artefatti culturali, uno a stampa, uno su pellicola (poi trasmigrata su nastro magnetico e infine approdata al digitale), uno del tutto digitale. Sembra quasi di vedere l’evoluzione dei media dal meccanico all’elettrico all’elettronico al digitale.

Va detto innanzitutto che mentre il primo Blade Runner era un adattamento quanto mai infedele del romanzo di Dick (basterebbe solo dire che in origine i replicanti, che in Ma gli androidi… neanche si chiamano così, sono fredde creature assassine prive di empatia, e che il cacciatore di taglie Rick Deckard è un brav’uomo non particolarmente eroico, e sicuramente umano), mentre Villeneuve sembra essersi posto come obiettivo, da cinefilo maniacale, di stabilire tutta una serie di corrispondenze tra le scene del suo film e quelle dell’illustre predecessore; le vicissitudini dell’androide K (poi Jo) e di Rick Deckard (versione Scott) corrono infatti parallele (ma non mi chiedete di entrare nei dettagli, altrimenti precipiteremmo in uno spoiler sconosciuto alla civiltà occidentale…).

Eppure Blade Runner manteneva un rapporto complesso con il romanzo di Dick, nel quale alcune scene marginali venivano come dire magnificate: basti pensare che la rivelazione finale (quella che diventa conclamata a partire dal Director’s Cut), e cioè che Deckard è un replicante, nasce da uno degli episodi più dickiani del romanzo, nel quale Deckard è arrestato da agenti di polizia che sono in realtà androidi, e portato in un commissariato fasullo popolato di Nexus-6 (ma per complicare un po’ di più la faccenda, perché Dick è Dick e non si smentisce, uno degli agenti, Phil Resch, anche se completamente privo di umanità, al test Voigt-Kampff risulta essere un uomo autentico…). Invece Blade Runner 2049, pur preso in un sofisticato gioco di specchi che rimanda incessantemente alla pellicola di Ridley Scott ben oltre le necessità della continuità narrativa (per cui si può dire che il secondo film sia veramente un replicante del primo), sembra aver tagliato quasi del tutto i ponti con il romanzo originario. Il frenetico gioco di realtà e simulazione del romanzo, che ritroviamo in una forma più controllata in Blade Runner, nel sequel viene sì evocato, ma in fin dei conti non è così centrale. Nella nuova pellicola K sa fin dall’inizio di essere un replicante, non è un segreto per nessuno, e non servono origami per fargli capire come stanno le cose (e il rovesciamento che si verifica a un certo punto non ha lo stesso impatto di quello che chiude il primo film).

In ogni caso, si può affermare che il romanzo e i due film in qualche modo orbitino, come pianeti attorno a un buco nero, intorno al tema della discriminazione, della razza, della disuguaglianza. Da questo punto di vista sarebbe il caso di fare entrare in gioco un quarto corpo, più letterario che celeste, e cioè L’androide Abramo Lincoln (tr. Gianni Montanari, Fanucci, pp. 278, euro 4,45 stampa, euro 5,99 ebook), altra opera di Dick solo apparentemente successiva a Ma gli androidi… (prima pubblicazione 1969-70 su rivista, 1972 in volume), ma in realtà scritta nel 1962 e restata nel cassetto per sette anni. In esso si narra la costruzione di un androide con le fattezze e la personalità del presidente che abolì la schiavitù negli Stati Uniti, e questo già fa capire che si andrà a toccare quella sorta di cuore di tenebra che ivi alligna fin dalle origini della prima colonia inglese in Nordamerica (la Virginia, nel 1607). Non a caso una delle scene più indimenticabili del romanzo è quella in cui l’androide Lincoln discute con Barrows, un classico cafone arricchito a stelle e strisce, cinico e arrogante, su cosa distingua l’uomo dall’androide, con la barriera che si fa man mano più sottile e porosa, fino a dissolversi, lasciando sul terreno solo i rapporti di forza tra chi ha i soldi e il potere e chi non li ha.

La questione della disuguaglianza è ciò che veramente trasmigra da Dick a Scott a Villeneuve; e forse lo fa aggirando Ma gli androidi… dove i Nexus-6 sono predatori senza empatia, e Roy Baty è tutt’altro che la figura nobile e tragica interpretata da Rutger Hauer nel primo film. È nell’Androide Abramo Lincoln che gli uomini artificiali dimostrano di essere più saggi e più umani di quelli “naturali” (e in questo romanzo c’è una serie di personaggi, prima tra tutti la geniale ma schizofrenica Pris Frauenzimmer, che mettono in crisi il discrimine tra uomo e androide); e da qui l’idea trasmigra, forse per interposto sceneggiatore (forse più David Peoples che Hampton Fancher), perché si ritiene che Ridley Scott neanche abbia finito di leggere Ma gli androidi…

Un tema che invece lega la prima trasposizione cinematografica e l’originale romanzo, è quello religioso, ma con un clamoroso slittamento nel passaggio transmediale: in Dick c’è la fantascientifica religione Mercerista, basata sull’empatia, sul soffrire del martirio del fondatore Mercer attraverso una sorta di realtà virtuale; mentre in Blade Runner il sottotesto religioso è quello di un Milton riletto attraverso il Frankenstein (autentica riscrittura romantica e rivoluzionaria del Paradiso perduto). Roy Baty che uccide Tyrrell è Adamo che si ribella a Dio, è il Figlio che uccide il Padre, è la creatura che insorge contro il creatore. Un Milton blakeano, a un passo dal vero e proprio luciferianesimo. Villeneuve e soci, dal canto loro, compiono un’ennesima reinterpretazione. In Blade Runner 2049 c’è, abbastanza insistita, una vena di messianesimo sorprendentemente cristiano: tutto ruota attorno al fatto che una donna è restata imprevedibilmente, assurdamente, miracolosamente incinta. E ha dato alla luce un figlio e una figlia – proprio come accadde a Dorothy Kindred Dick nel lontano 1927; è questo sicuramente un omaggio a Dick (e noi veri credenti ringraziamo), ma sono anche i Vangeli, no?

In conclusione, raccomando a tutti la visione del nuovo Blade Runner 2049, visivamente elegantissimo, ritmicamente caratterizzato da una lentezza che di questi tempi di regie cocainomani o anfetaminiche fa quasi piacere, e dotato di una colonna sonora notevolissima nel suo piglio ferocemente rumoristico (che mi piace quasi di più dell’elettronica ormai un po’ desueta di Vangelis nel primo film). Beninteso, la pellicola di Villeneuve non ha e non può avere l’impatto visionario che ebbe a suo tempo quella di Ridley Scott (quand’era Ridley Scott, non il fabbricatore di cose insulse come Prometheus), però è un pezzo di cinema degno di rispetto e che attesta le notevoli capacità del regista canadese. Ma raccomando a tutti di rivedersi la prima puntata, e soprattutto di leggere il dittico di Philip Kindred Dick, che ha retto incredibilmente bene al passare del tempo. Spero che sia per i più giovani spettatori un’occasione per avvicinarsi al Gran Californiano.

E prima di chiudere, una noticina a pie’ di pagina: tutti questi commentatori che si sono infervorati su Facebook e altrove a scannarsi sulla superiorità o inferiorità di Blade Runner 2049, e che occasionalmente hanno accennato al buon Phil, sembrano non essersi accorti affatto dell’elefante nella stanza. Perché se c’è un omaggio assolutamente clamoroso nella pellicola di Villeneuve, è sicuramente quello che viene tributato all’altro gigante della fantascienza new wave, James Graham Ballard, e al suo Ultime notizie dall’America (vergognosamente fuori stampa da lunga pezza). Provatevi a dimostrare che le scene nella post-apocalittica Las Vegas, con i fantasmi elettronici di Elvis Presley e Frank Sinatra nei casinò abbandonati non sono prese di peso dal romanzo del visionario di Shepperton; dubito proprio che ci riuscirete. E completamente ballardiani sono i paesaggi urbani evocati da Villeneuve, che quanto a visione degli spazi e dei luoghi dà diversi punti anche a Ridley Scott.

Insomma, come sempre, science-fiction prevails!

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