Pelé, l’essenza del calcio

Pelé (1940-2022) è riuscito a raggiungere l'universale proprio perché nero e brasiliano. Perché solo incrociando il tema della privazione, del pregiudizio e della diffidenza, Pelé ha potuto toccare il nervo scoperto dell'esperienza di centinaia di milioni di persone che si sono riconosciute in lui, spesso senza nemmeno essere praticanti o tifosi di calcio. L'istante notevole immanente a qualsiasi istante, cioè l'essenza del calcio.

Il calcio è uno sport moderno, nel senso più stretto del termine. È figlio della rivoluzione industriale, dei cambiamenti e degli impatti causati dall’urbanizzazione e dalla modernizzazione sociale. Compare negli agglomerati dei distretti industriali della metropoli inglese, e diventa appendice funzionale delle fabbriche. La classe operaia britannica si riappropria del calcio e lo converte in passione di massa, primo sport nazional-popolare di inglesi, scozzesi e gallesi. Lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni contribuì alla sua diffusione: le ferrovie permisero di tenere leghe regionali e nazionali, mentre la massificazione della stampa, e poi della radio, costituì ascolti immensi[1].

Ma il calcio è uno sport moderno in un senso più interno, in termini di natura del movimento coinvolto.

Gli sport antichi erano basati sulle pose: certe relazioni e proporzioni tra le parti del corpo, e tra corpi e strumenti dello sport. L’atletica leggera, la lotta greco-romana, il sollevamento pesi, il tiro con l’arco, il nuoto sono sport dati dall’instancabile ripetizione di modelli consacrati della migliore disposizione corporea. L’atleta olimpico è un modello dalle misure geometriche, tende alla perfezione, immortalato nelle mitiche figure del discobolo o del maratoneta. Lo sport antico è l’arte delle pose corrette, la competizione per la forma ideale, più alta, più forte, più lontana.

Il culmine dello sport antico è un istante straordinario già inscritto nella logica del gioco. È il lancio, il salto, il sollevamento, il tiro, il traguardo. L’intero set di pose ha lo scopo di massimizzare quell’istante. Il movimento avviene attraverso la sintesi formale delle pose, un tempo pulsato.

Lo sport moderno, emerso con la rivoluzione industriale, ha liberato il corpo dai modelli. Non esiste più un atleta ideale, poiché le pose non determinano la logica del gioco. Nel caso del calcio, quattro linee delimitano un immaginario parallelepipedo di possibilità libere, all’interno del quale il pallone si svolge senza forme eternabili. Le linee tracciate dai corpi e dalla palla sono curve, continue, la loro sintesi avviene punto per punto e non più attraverso il passaggio tra pose diverse.

Anche il climax del calcio è un momento straordinario, il gol, ma la sua genesi è totalmente diversa dagli sport antichi. La partita si svolge in novanta minuti in cui tutti gli istanti sono formalmente equivalenti. Tutti i momenti, in linea di principio, hanno lo stesso valore. In qualsiasi istante il gioco può elettrizzarsi e può succedere qualcosa di straordinario: un dribbling, una mossa geniale, un gol. Se lo sport antico è sintesi formale di pose o istanti notevoli (trascendenti al movimento), quello moderno è sintesi materiale di istanti qualsiasi. L’uno è un compendio ideale di forme ortodosse, l’altro un continuum creativo, informe, eterodosso.

Insomma, il calcio, come sport moderno, è un continuum di movimento che si costruisce in ogni momento e non può essere scomposto se non nei suoi notevoli elementi immanenti.

Il calcio, dunque, non è l’arte delle pose, ma l’arte industriale e può ricevere la stessa definizione che Deleuze, nel libro Immagine-movimento (1983/2016), riserva ad altre arti industriali, come il cinema: “sistema che riproduce il movimento riportandolo all’istante qualsiasi”[2].

In questo senso il calcio coincide non solo con il cinematografo dei fratelli Lumière, ma anche con la musica propriamente moderna e il suo tempo non scandito: Schönberg, jazz, samba; oltre all’azione-danza, al mimo e alla pittura cubista.

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“Non c’è che il Brasile, allora. Tutto il resto è calcio. Tutto il resto è football.” Lo dice Carmelo Bene in una conversazione del 1998 con enrico ghezzi[3]. “Per esempio, l’importanza della samba nel Brasile [inteso come squadra ndr.] è determinante”. Sembra così dare ragione a Mário Filho, il cronista del calcio e proprietario del più grande quotidiano sportivo brasiliano, che nel 1947 scrisse O negro no futebol brasileiro[4]. Il libro è canonico nella storiografia del calcio brasiliano perché sosteneva la peculiarità, unica e ineguagliabile dello sport più popolare del paese che nasceva dall’incorporazione dei poveri e dei neri nella pratica, avendone assorbito le sinuosità, le malizia e l’astuzia della samba, della lotta capoeira e le improvvisazioni della vita in favela.

Dopo aver combattuto a fianco degli Alleati sui campi di battaglia e aver superato la dittatura Vargas dell’Estado Novo (1937-45), il Brasile si trovava a un bivio dove si discuteva dei possibili futuri della sua società.

Il Brasile avrebbe potuto raggiungere la sua modernità proprio affermando il suo carattere multirazziale e multinazionale: non come somma di diversità, ma come sintesi di differenze. Il brasiliano, del resto, è un tipo qualunque: non si può dedurre se uno è brasiliano perché è più bianco, nero, indigeno o asiatico, visto che le massicce ondate di immigrazione, esodo e commercio di esseri umani sono confluite in diverse regioni in tempi diversi nella storia del Brasile, dall’inizio della colonizzazione europea, nel XVI secolo. Così intellettuali come Gilberto Freyre e Mário Filho, modernisti dell’antropologia e delle cronache calcistiche, intendono il Brasile moderno: un continuum di linee incrociate, i cui punti notevoli sono costruiti da punti qualsiasi, in sé indefinibili.

Non ha senso parlare di etnia brasiliana e la razza, contrariamente al caso nordamericano o sudafricano, assume un carattere sfumato, passando attraverso diverse gradazioni di colore e di caratteri, comunque difficile da precisare. Non esiste una forma o un modello ideale del brasiliano, ma una continua sintesi materiale di meticciato, in termini vicini a quelli di Édouard Glissant quando parla dell’amalgama caraibico e usa il concetto di créolisation[5]. Ciò non significa che il razzismo in Brasile sia inesistente – o meglio o peggio – esiste, i quattro secoli di schiavitù si manifestano oggi in modo molteplice, ma funziona a modo suo: in flussi e gradienti differenziali[6].

Pelé è emerso nel calcio brasiliano in un momento cruciale, in cui l’universo calcistico si trovava in una zona nevralgica dei progetti nazionali e dell’identità nazionale. Si può dire che sia apparso al momento giusto e nel posto giusto per svolgere il ruolo di sintesi non solo del calcio in Brasile, ma anche della difficile costruzione della sua identità davanti al mondo.

L’equazione brasiliana della democratizzazione razziale ovviamente non funziona senza l’inclusione dei neri (e degli indigeni) come partecipanti alla società. Questa è sempre stata la variabile più problematica, che ha portato a criticare il lavoro di Freyre e Filho come troppo condiscendente con il permanere di contraddizioni e disomogeneità strutturali.

Ma nel XX secolo, il calcio brasiliano, insieme alla musica (samba, bossa nova e MPB [musica popolare brasiliana ndr.]), è stato uno dei nuclei radianti dell’identità nazionale e ha messo in scena i drammi sociali e i loro antagonismi. Le crepe dell’orizzonte utopico cominciavano già ad apparire dopo la sconfitta della squadra brasiliana in casa propria, nella finale contro l’Uruguay al Maracanã, che divenne nota come “la tragedia dei 50” o “Maracanazo”. Il sogno del campionato del mondo è naufragato in una sconfitta sconvolgente. Poiché “l’unico che ha bisogno della teoria è la sconfitta”, le spiegazioni proliferarono rapidamente sui giornali: la mancanza di razza, fibra, impegno per la nazione, i giocatori on avrebbero preso sul serio la competizione, non sarebbero stati all’altezza del grado di importanza del Brasile e altri famosi miti del calcio.

In quel momento, la colpa è stata attribuita dalla maggior parte della stampa sportiva nazionale a neri di questo tipo, che Mário Filho ha definito la “recrudescenza del razzismo” [7]. In realtà il razzismo non era mai stato superato, essendo stato messo sottobanco nello stesso momento in cui, quando vincevano, le stelle nere sembravano “sbiancare” agli occhi della società brasiliana, come se fossero quasi bianche.

La selezione di razza mista era stata accusata (come 4 anni dopo quando il Brasile è stato eliminato ai quarti di finale dagli ungheresi, in un 4-2) perché mancava di forza psicologica, mancanza di volontà di vincere e l’orgoglio nazionale vacillava. Sembrava mancare il carattere per affrontare una squadra europea organizzata e disciplinata. I giocatori afro-discendenti sarebbero, da questa prospettiva discretamente razzista, troppo emotivi, il che aveva contaminato le prestazioni della squadra.

È in questo momento cruciale che la figura di Pelé sale fulmineamente sul piedistallo dal quale non è mai stato rimosso. Pelé ha brillato in tutte le categorie giovanili e, a 17 anni, è stato definito all’unanimità il re del calcio. A quell’età debuttò in Coppa di Svezia nel 1958, distinguendosi in tutte le partite fino a diventare il più grande giocatore della competizione e l’idolo assoluto del Brasile. Pelé ha riunito tutte le qualità che erano considerate carenti nella squadra brasiliana. Era disciplinato, fisicamente in forma ed estremamente concentrato sulla vittoria. Non solo praticava un calcio apollineo e rigorosamente tecnico (l’anima dionisiaca della Selezione del 1958 fu espressa da Garrincha, famoso per i suoi dribbling con le gambe storte e per la sua indisciplina dentro e fuori dal campo), ma Pelé era capace di creare giocate, passare la palla e giocare faccia a faccia con il collettivo.

Inoltre, nel corso della sua carriera, Pelé si è affermato come un negro sansphrase. Ha manifestato una pienezza di fiducia senza precedenti, traboccante di certezza e ottimismo. Aveva una convinzione incrollabile di trasudare leadership ai suoi compagni, che lo seguivano, affascinati dalle imprese e dalle realizzazioni a cui sembrava dotato dalla legge divina. Tutto della sua ascesa al trono sembrava naturale e immediata, tanto che, fin dall’adolescenza di Pelé, si diceva già che fosse un predestinato. Le narrazioni in formato saga proliferarono in cronache, libri e film: Pelé era destinato a superare le barriere sociali, razziali ed emotive di un popolo brasiliano che non riusciva a formarsi pienamente, non si liberava degli stigmi, e non è riuscito a registrarsi sulla scena internazionale con un’identità positiva.

Con Pelé tutte le variabili erano risolte: era brasiliano, era povero, era nero, era forte fisicamente, mentalmente ed emotivamente, era un leader e, in effetti, ha guidato la squadra brasiliana al suo primo titolo mondiale attraverso il suo esempio, nel 1958.

Mário Filho, nella prefazione del 1964 alla seconda edizione de O negro no futebol brasileiro evidenziava come l’intera traiettoria di andirivieni della realizzazione del calcio brasiliano, quindi, dell’integrazione dei neri nella modernità del mondo che il Brasile intendeva essere innovazione culminò in Pelé: “nessun uomo di colore al mondo ha contribuito così tanto a spazzare via la discriminazione razziale” [8]: Pelé era riuscito a raggiungere l’universale proprio perché nero e brasiliano [9]. Perché solo incrociando il tema della privazione, del pregiudizio e della diffidenza, Pelé ha potuto toccare il nervo scoperto dell’esperienza di centinaia di milioni di persone che si sono riconosciute in lui, spesso senza nemmeno essere praticanti o tifosi di calcio. L’istante notevole immanente a qualsiasi istante, cioè l’essenza del calcio.

[1]    Peter Swain, The Emergence of Football: Sport, Culture and Society in the Nineteenth Century. Londra: Taylor & Francis, 2020.

[2]    Gilles Deleuze, Cinema 1; Immagine-movimento. Nuova edizione italiana. Traduzione di Jean-Paul Manganaro. Torino: Einaudi, 2016. p. 3.

[3]    Carmelo Bene, enrico ghezzi, Discorso su due piedi (il calcio), La nave di Teseo, 2019, p.20.

[4]    Di recente è stata curata la traduzione inglese di quello che è considerato, se non il più importante, uno dei più importanti nella storia del calcio brasiliano: The black man in the Brazilian soccer (ed. The University of North Carolina Press, 2021). Indubbiamente, la storia delle lotte razziali e il crogiuolo dell’incrocio di razze è più complicata e problematica, tuttavia, il libro esprime un progetto politico potenziale che Mário Filho vedeva nel governo, nella cultura e nel calcio alla sua volta del secolo.

[5]    Leonora Corsini, A potência da hibridação – Édouard Glissant e a creolização. Revista Lugar Comum n. 25-26. Rio de Janeiro: UFRJ, mai-dez 2008. p. 211-221.

[6]    Giuseppe Cocco. Mundobraz – El devenir-mundo de Brasil y el devenir-Brasil del mondo. Traduzione del portoghese allo spagnolo di José Ángel Brandariz, Agustina Iglesias Skulj, Marta Vázquez Pena e Xulio Ferreiro Baamond. Madrid: Traficantes de Sueños, 2012 [2009]. Cap. 4. Hibridación, antropofagia, racismo y acciones afirmativas, p. 265-326.

[7]    Mario Filo, op. cit., pag. xi – xiii.

[8]    Operazione. Cit., pag. XIII.

[9]    Gilberto Freyre, A proposito di Pelé . Giornale Folha de São Paulo, 11/03/1997. Disponibile online su: https://outroladodanoticia.com.br/2022/12/26/a-proposito-de-pele/