PattY Pravo Pazza idea

PattY Pravo, La cambio io la vita che... Tutta la mia storia, Einaudi, pp. 170, euro 17,50 stampa, euro 9,99 ebook

Se ogni temperie musicale ha la sua musa, così non latita la sua artista “maledetta”: Edith Piaf e Patti Smith, Marlene Dietrich e Nico, Janis Joplin e Grace Slick per citare i nomi più importanti; grandi artiste, stelle della cultura (o della controcultura), ma anche icone di un femminile ribellarsi ai ruoli codificati dalla società; simboli soprattutto di trasgressione, ma di una trasgressione reale, non mediatica, non artificiosa; scelte di vita che si pagavano in varie misure, dall’ostracismo alla morte violenta; figure che sedimentatesi nell’immaginario collettivo sono assurte al ruolo di metafore di una specifica artisticità, in stridente contrasto con l’omogenea corte di rassicuranti coriste che hanno accompagnato lo scorso secolo.

L’Italietta anni Sessanta non ebbe gli sconvolgimenti di cui sopra, ma neppure negli anni successivi si avvertì un guizzo di ribellione. Le cantanti e le musiciste erano figure consolatorie, che non osavano aprirsi al mondo reale ma vivevano in una sorta di indeterminato limbo catto-comunista, come nel caso di Orietta Berti; altre. Milva in testa, intellettuali tout court, magari alla Ornella Vanoni, nella veste di una “mala” ambrosiana, o figure indefinite, come Mina. Caterina Caselli smise ben presto di fare la cantante beat, ma aveva frecce al suo arco.

In un mondo che andava (con lentezza) incontro alla modernità, cominciando ad aprirsi agli influssi stranieri, sopiti prima dall’autarchismo del Ventennio, in seguito dall’egemonia di un PCI ancora innamorato del “paradiso dei lavoratori” e di una DC che faceva gli interessi del Vaticano, esisteva una sola star, una ragazza veneziana di buona famiglia che si trovò a vivere a doppia velocità rispetto agli altri, quando esser contro, allora, aveva un peso: Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo. Che si racconta nella sua autobiografia, La cambio io la vita che…, un viaggio lunghissimo, spiritoso e spesso roboante, nel magico mondo di allora finito col mutarsi nello squallore odierno.

L’incipit ci porta negli Usa, anno 1979. Patty Pravo, in fuga come sempre, ha una visione della nonna defunta, che circolarmente tornerà alla fine. E da questo punto si sdipana la memoria della sua esistenza, a partire dalla natia Venezia dove Patty bambina vive con i nonni, e dove il primo grande incontro fu Ezra Pound, il celebre poeta americano che scelse l’Italia come rifugio dopo la prigionia e il manicomio, e sua moglie, Olga Rudge, di cui viene scritto un commovente ricordo (assieme al nonno e alla nonna, forse il più sentito).

In seguito comincia la stagione della “ragazza del Piper”, che lasciata Venezia, il conservatorio, i nonni, si ritrova prima a Londra, poi a Roma, con Alberigo Crocetta, il patron del Piper, che di fatto crea il suo mito: Pravo, ricordo dantesco delle “anime prave”, e Patty, il nome di un’amica inglese; la conoscenza con Gordon Faggetter, il batterista che sarà il suo primo marito (e che molti ricordano come pittore e illustratore, se non altro per la magnifica copertina di Cercando un altro Egitto di de Gregori), la casa di Mario Schifano, il famoso pittore pop, in cui vengono dispensate sostanze psicoattive a tutti i frequentanti; gli incontri straordinari con Jimi Hendrix e i Pink Floyd, e i Rolling Stones, David Bowie, Frank Sinatra, i Led Zeppelin; la storia prosegue fra alti e bassi, fra amori infiniti, matrimoni e divorzi, fughe da una parte all’altra del mondo, ora in Usa ora nel deserto, in Cina come in Gran Bretagna; ma sopratutto con un grande successo internazionale che fa sì che lei diventi la cantante italiana più conosciuta all’estero, i cui dischi raggiungono i 110 milioni di vendite.

Un’autobiografia che è uno squarcio breve e ritmato del mondo antico come di quello successivo, sebbene il periodo “eroico”, per così dire, della storia sia quello sostanzialmente degli anni Sessanta-Settanta. Ma il vero centro della caotica vita della cantante alla fine sembra essere non la musica, la danza, non gli amori (infiniti), le droghe (la perquisizione e la detenzione per supposto possesso di cocaina sono un pezzo che starebbe bene in qualunque antologia beat), ma il deserto. Sebbene possa parere strano, la scatenata esistenza della Pravo ha i suoi momenti di interruzione e silenzio solo quando la civiltà viene lasciata alle spalle e comincia la fuga impossibile, fra Tuareg, jeep, dune e cammelli, a contatto con un mondo che non è quello occidentale e che si apre in una dimensione diversa; tanto più vera dal momento che nella vita della Pravo non c’è mai, come spesso si rinviene nelle memorie di chi fu giovane negli anni Cinquanta-Sessanta, quel richiamo alla cultura contadina e al mondo agreste che si andava man mano modificando. Ed è una particolarità ancora più strana poiché la cultura italiana, se non in epoca coloniale, mai ha sentito la fascinazione del deserto, tipica, ad esempio, della cultura francese, sebbene ciò che il deserto rappresenta venga sempre accennato e mai approfondito: un abbozzo che è un po’ il limite di tutto il testo.

Perché due sono i limiti di questa sorprendente autobiografia, che ci mette a disposizione la vita dell’unica vera e propria stella musicale, transitata dal beat alla musica melodica fino a quella sperimentale, magari sotto l’egida di Vangelis: l’essere abbozzo, e una certa trasandatezza nello stile. Il materiale qui riassunto avrebbe potuto prender corpo in modo più approfondito per pagine e pagine, che ogni lettore (non necessariamente fan) avrebbe seguito con entusiasmo; mentre invece tutti gli argomenti si esauriscono nel giro di una o due pagine. Un punto interessante, ad esempio, è la posizione politica: quella di un’anarchica che si sente vicino ai radicali, ma che mai ha votato, e che raffronta i vecchi signori della politica, come Berlinguer e Almirante, con il vuoto successivo. In aggiunta le etichette di disimpegnata se non fascista, e il “processo” nelle radio libere a ogni intervista: materiali che sarebbe stato di estrema importanza approfondire, e che invece sono lasciati da parte. Oppure la sua posizione religiosa, atea che si avvicina alla spiritualità di Paramhansa Yogananda (uno dei più antichi maestri, uno dei primi ad avvicinare l’Occidente, pur senza essere uno dei tanti “guru-cola” successivi) e ne legge e studia i testi, fino a usarli per il proprio orientamento esistenziale.

Il testo, sembra, inoltre, più che uno scritto, un racconto orale, segue i ritmi (e i modi) di una chiacchierata fra amici. Se dovessimo usare le funzioni di Jakobson per analizzarlo, scopriremmo che la funzione primaria è quella espressiva: Patty si racconta come sé e come Nicoletta Strambelli, ma il pronome “io” fa capolino ovunque, anche quando un editore lo avrebbe cancellato metà delle volte, e tutto quel che avviene ha sempre l’aria di un discorso appena cominciato e poi lasciato andare. Brevità e trasandatezza, che fanno poi un corto circuito, per cui il lettore si frastorna a seguire mille eventi di cui perde il filo.

Un’autobiografia comunque da leggere e da gustare per gli amanti della cantante e della musica; altro non fosse per ritrovare quegli anni in cui pareva di avere il mondo in mano nostra, seguiti dalla caduta dell’illusione e dalla scoperta che neppure il futuro ci apparteneva. Al suo interno, aggiungiamo, lo svelamento di un enigma su cui gli appassionati di fantascienza si interrogano da anni: quale fu il motivo reale che spinse la cantante a non partecipare allo sceneggiato televisivo (allora si chiamavano così) A come Andromeda, opera originale di sir Fred Hoyle, ri-scritto da Inisero Cremaschi, e diretto da Vittorio Cottafavi, che andò in onda nel 1972? Perché al posto della sua algida e siderale bellezza venne chiamata Nicoletta Rizzi? Fu veramente perché la RAI catto-comunista temeva che il torrido erotismo della Pravo (condito da costanti allusioni alla sua androginia) inquietasse i sogni dei teledipendenti? Per la sua scarsa disciplina, come sostennero i media? O venne allontanata dal regista perché mostrava scarsa attitudine?

Vexata quaestio che viene finalmente risolta: fu lei, Patty, ad andarsene, perché voleva recitare, mentre Cottafavi, contentandosi della sua bellezza, le tagliava le battute e la voleva meno attrice (e diremmo oggi), più icona possibile: da una star, insomma, si pretendeva che non recitasse se non sé stessa, come in parte sarebbe stato in seguito per David Bowie in L’uomo che cadde sulla Terra di Nicholas Roeg. Con la differenza che il carattere della cantante veneziana era molto più sulfureo di quello di Ziggy Stardust. E al recensore resta il rimpianto di non aver potuto vedere Patty nelle vesti di Andromeda, magari con Sentimento come colonna sonora: Al di là delle stelle chissà cosa c’è/forse un mondo diverso per chi/non ha avuto mai niente in questo mondo qui…

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