Che sensazione proviamo nel vedere sulla copertina di un libro il disegno del Sudamerica e del Regno Unito che, in modo del tutto stilizzato e curioso, si sovrappongono con un gioco di effetti e creano piccole maschere spezzate? Ne siamo certamente attratti perché il colore dello sfondo è rosso vivo (sangue versato nelle colonie?) e forse per questo, d’istinto, pensiamo alla schiavitù e alle lotte tra popolazioni: è decisamente forte l’impatto visivo di questa copertina riguardante l’ultima raccolta di racconti di Pauline Melville.
Nata in Guyana nel 1948 da madre londinese e padre guyanese, si trasferirà a Londra molto presto, dove vive ancora oggi. La sua carnagione olivastra non le farà subire fenomeni di accentuato razzismo, che invece subirà suo padre. Ciò la farà sentire diversa da entrambi i rami della famiglia, inglesi e centroamericani, e questo suo disagio confluirà nelle pagine del libro, consegnando all’animo dei suoi personaggi sentimenti di separazione ed estraneità.
Melville racconta tout court il colonialismo: nello scorrere delle pagine il conflitto razziale assume aspetti sottili ma puntuali e ne emerge il dolore, l’ingiustizia e la profonda sofferenza per chi ha deciso di partire e per chi ha invece scelto di restare. Leggiamo la radicata amarezza di chi è stato per generazioni in schiavitù, di chi è emigrato verso un mondo che credeva migliore ma nel quale fatica a integrarsi, e leggiamo altresì lo sconforto di chi, tornato in patria, fatica a trovare un luogo in cui riconoscersi nella propria comunità e in cui sentirsi accolto e protetto.
Proprio come le maschere della copertina, rigorose nel ricordarci che si pongono sul viso per nascondere con fermezza l’identità di chi le indossa, così i molti personaggi qui presenti sembrano smarrire loro stessi e la propria individualità. Sono uomini e donne di ogni età che, in un mondo di totale fantasia – in cui si inseriscono talvolta anche elementi di realtà storica e geografica – vengono mossi dalla penna dell’autrice per creare e gestire situazioni paradossali, estreme e spettacolari e al limite dell’assurdo, in una struttura narrativa estrosa e originale, generata da continui cambi di direzione, corsi e ricorsi ed effetti cinematografici. Un esempio su tutti: La ragazza dall’arto celestiale in cui, discutendo di fisica quantistica, la gamba di una giovane viene trasformata in poche ore in un buco nero cosmico che in una notte la risucchierà completamente facendo trovare del suo corpo al mattino solo un po’ di fuliggine. Ci sono soggetti dai poteri sovrannaturali e fantasmi, la magia e la stregoneria laddove il non razionale diventa esperienza necessaria per poter conoscere se stessi e il mondo che li circonda. Ci sono la cattiveria umana e la miseria, la religione e il carcere, figli e madri che vivono di stenti.
Sono racconti aperti che volontariamente l’autrice non sembra aver desiderio di concludere con un finale risolutivo: l’intento sembra essere quello di lasciare in sospeso noi lettori affinché, fatte nostre le immagini della narrazione, si possa scivolare in esse e partecipare in prima persona alla scena, terminando ogni capitolo con il proprio individuale epilogo. Nonostante tutte e dodici le storie abbiano trame totalmente diverse tra loro, dove ciascuna assume colorazioni e ambientazioni differenti con interpreti multiformi (e ogni luogo è ben caratterizzato da sgargianti colori e peculiari odori, così intensi da penetrare vista e olfatto del lettore), il tema dominante, il trait d’union, è il voler rappresentare le qualità e le caratteristiche della vita vissuta tra Londra e i Caraibi, in modo contrapposto ma anche liquido, tanto che le geometrie fisiche dei personaggi, che paiono così antitetici tra loro, si compenetrano al contempo in una visione d’insieme fino ad arrivare a tessere una nuova unità sociale e umana, che vada oltre il colore della pelle e il luogo di nascita.
Ecco perché ci è impossibile arrivare a definire quale dei due Paesi l’autrice consideri immaginario, quasi come se il titolo stesso del libro fosse la domanda ultima che pretende e acclama una nostra risposta, una nostra presa di posizione. Siamo piuttosto portati a credere che con questa raccolta Melville abbia cercato di tracciare una strada del tutto immaginaria e ideale, ma solida e strutturata, per poter camminare e oscillare ogni volta che lo si desideri dall’Inghilterra ai Caraibi senza interruzioni e pregiudizi, per poter far convivere in noi mondi così diversi che arrivino a compenetrarsi con la nostalgia e il fascino dell’irrisolto, cosicché “Torniamo e partiamo e torniamo di nuovo, solcando e risolcando l’Atlantico, ma su qualunque lato dell’Atlantico ci troviamo, il sogno è sempre sull’altra sponda”.