Camille, protagonista e io narrante del nuovo romanzo di Pauline Klein, rientra a Parigi dopo un periodo negli USA, lascia la casa materna per un monolocale in rue de Saints-Pères – che “simboleggiava in modo perfetto la continuità di una trama esistenziale socialmente accettabile dopo un’esperienza arricchente a New York” – e trova lavoro presso una giovane galleria d’arte specializzata in opere di artisti sudamericani. Fa dunque tutto come si deve, come si aspetta da lei la madre “molto bella, molto dolce e straordinariamente tollerante”, fa tutto come si addice a una ragazza del nostro tempo, cosmopolita e interessante: costruisce la propria vita, tappa dopo tappa, affinché la si possa raccontare senza imbarazzo a una cena a casa di amici.
Ma questa non è lei. La vera Camille sta dietro, in ultima fila, a osservare quell’interprete di se stessa nel mondo, a chiedersi come faccia la gente a far collimare l’immagine esteriore di sé con la propria essenza più profonda. Camille percepisce questo scarto fin da ragazzina, quando, da bambina bella e coccolata, si trasforma in un’adolescente dall’aspetto scialbo: “da quell’apparenza banale e quasi indefinibile scaturì la mia propensione a immaginarmi in quasi ogni tipo di ruolo, per la ragione che poteva essere svolto con una certa indifferenza”. Ed è così che Camille diventa la figurante di sé stessa: gioca il ruolo di viaggiatrice, di addetta a una linea erotica, gioca all’impiegata modello, alla brava bambina, alla protagonista dell’avventura di una notte, alla fidanzata perfetta. Ma qualcosa le sfugge, sempre.
La questione di fondo è antica: essere o apparire? Quanto di quello che siamo lo dobbiamo alla nostra vera natura e quanto è il risultato di aspettative esterne dettate dalla società, dalla famiglia, dal contesto sociale in cui nasciamo e cresciamo? Si chiede Camille: “come facevano gli altri a corrispondere a ciò che erano, con un discorso da sbandierare, come facevano a trovare presso nutrite platee le prove esteriori della loro vita interiore?”.
Pauline Klein mette in scena la rappresentazione delle diverse identità di una giovane adulta alle prese con la ricerca di se stessa in una sorta di romanzo di formazione che ha per protagonisti dei quasi-trentenni smarriti (o apparentemente risolti) che si dibattono per cercare di trovare, o di sfuggire, il proprio posto nel mondo.
Quello che è nuovo, nel romanzo di Klein, più che il cosa, è il come: Camille cerca se stessa per sottrazione, in una forma di ostinata resistenza passiva all’invasione di pregiudizi, costrutti, regole artificiose e programmate finzioni a esclusivo beneficio esterno da cui siamo costantemente bombardati.
Fino a quando il suo vero io non collimerà con l’immagine esteriore che dà di sé, fino a quando non avrà più bisogno di nascondersi dietro una madre possessiva, un fidanzato ricco, un’esperienza all’estero nel “posto giusto” o un lavoro da esibire, ovvero fino a quando essere e apparire non troveranno un punto d’incontro nella sua persona, la porta sul mondo rimarrà, semplicemente, chiusa a doppia mandata. Metaforicamente, certo, ma anche fisicamente: per lasciare il posto di lavoro che la opprime, Camille si chiuderà in casa per due settimane fingendo una strana malattia di cui finirà per sentire i sintomi immaginari. Lungi dall’essere vissuta come una segregazione, questa chiusura verso l’esterno corrisponderà tuttavia in Camille a un’apertura dentro se stessa: sarà questa l’occasione per un necessario e troppo spesso rimandato confronto onesto con il proprio io.
Per ribellarsi al mondo di convenzioni esterne che le sta stretto, Camille non ha bisogno di urlare, le basta fare un passo indietro, in un atteggiamento che ricorda il famoso I would prefer not to del Bartleby di Herman Melville (come nota Raphaëlle Leyris nella sua recensione su Le Monde), con un obiettivo ben preciso: distaccarsi il più possibile dalle rappresentazioni borghesi – le aspirazioni di ricchezza materne, lo status sociale del fidanzato – che, con l’illusione di proteggerla, l’hanno imprigionata per tutti gli anni della sua crescita.
In uno stile asciutto e pungente, attraverso personaggi memorabili tratteggiati in modo vivido anche attraverso gli oggetti che li circondano e il tipo di linguaggio che usano (uno su tutti: la madre che evoca il giardino e la piscina della sua residenza a Montparnasse per parlare del loro bilocale con balcone in erba sintetica e fontana condominiale), Klein offre attraverso questo romanzo breve un punto di vista originale sull’eterna ricerca di se stessi e sull’affacciarsi all’età adulta in epoca contemporanea.
La Figurante è il quarto romanzo di Pauline Klein, che con Alice Kahn aveva vinto il Premio Fénéon 2010 e, nel 2011, il Premio Murat del GREC (Group de Recherche sur l’Estrême contemporain) dell’Università di Bari. In Italia è tradotto per Carbonio Editore dalla scrittrice Lisa Ginzburg, candidata con il suo Cara Pace (Ponte alle Grazie) al Premio Strega 2021.