Pochi giorni prima del naufragio del Titanic, il 4 aprile del 1912, a Edegem, vicino a Anversa nelle Fiandre, nasceva Paul Willems. È un accostamento incongruo, ma forse proprio per questo ha la sua ragion d’essere, del resto anche questa è belgitude, e forse tutto il Belgio e la sua letteratura sono un qui pro quo. Immaginiamo allora la nascita di questo scrittore, uno degli ultimi grandi fiamminghi francofoni, come quella del figlio d’un mondo che s’inabissa. La cattedrale di nebbia è una raccolta di racconti maliosi come gli abissi e che come le acque scorrono impetuosi, o ristagnano pigri, quando la storia non s’involuta in lunghi meandri che sboccano esattamente là dove è rampollata.
Al sale del mare torna, misto di lacrime e sangue, il pane del primo racconto (Requiem per il pane); generosi sorsi di akvavit riscaldano il viaggiatore nei laghi del cielo finlandese, dove le stelle portano nomi di poeti (Un viaggio da arcivescovo); Čerepiš, dal nome di un vecchio monastero bulgaro che raccoglie resti di grandi eroi aiduchi, e Nell’occhio del cavallo ricordano certe pagine di Kaputt o delle Città invisibili (altro accostamento incongruo?): nel primo, il colto vagabondaggio attraverso i monti Rodopi si trasforma in una piccola epopea esistenziale che ha per protagonista un compagno di viaggio dal nome non casualmente omerico, Hector (“anima a forma di sorgente”); anche nel secondo caso l’altrove rivela il sé, il viaggio è certo un cambiar luogo e lingua, ma di tutti i cambiamenti di lingua quello che avviene nella terra degli Schwûs è il più perturbante perché riguarda non il senso delle parole, ma la loro forza: “Quando una parola della loro lingua comincia a presentare segni di usura, la incidono su un blocco di marmo che poi innalzano in mezzo alla radura, sotto il cielo, nel vento. Gli uomini, passandogli accanto, le ridanno vita e la ricaricano di significato. È così che la lingua degli Schwûs conserva la sua forza. Noi abbiamo le foreste, presso gli Schwûs, invece, sono le parole a verdeggiare”.
Che la lingua di Willems sia fortemente vitale lo provano le fantasiose invenzioni linguistiche: ecco gli antipodi incroci nei nomi di uccelli (éperlinotte, fusione di épervier e linotte, che Girimonti Greco e Musardo, traduttori dal mirabile orecchio, rendono con sparlinotto nella consapevolezza di riunire nel suono rapacità e grazia), o le magiche creature inventate de Il Palazzo del vuoto, come i “Migliosi dalle chiome d’oro, i Malportanti dagli occhi verdi e i giganteschi Basilarchi divoratori di vento”. In quest’ultimo racconto emerge la figura dell’architetto, Victor (forse un omaggio a Victor Horta, uno dei maggiori esponenti dell’Art Nouveau belga), che poi si ridurrà ad un solo carattere, V., nel racconto finale, quello che dà il titolo alla raccolta. Nulla conferma che si tratti dello stesso personaggio, ma nulla neanche lo smentisce. A noi piace pensare ad un dittico, dal moto discendente e ascendente, così come scende e sale il tratto di penna nel formare quella lettera iniziale. Nel bordello del Palazzo di Vuoto, dove l’acqua ristagna, Victor disegna boccette d’inchiostro e fusti per il latte che spandono il loro contenuto in larghi fiotti: è la liquida tela d’amore e morte dove andrà a posarsi Micheline, “sottomessa al male di cui ha bisogno”.
Ne La cattedrale di nebbia, l’architetto V. sa che la nebbia segue i sentieri dell’aria come l’acqua segue il letto di un fiume e costruisce mantici che soffiano vapori caldi, innalzandoli come pareti e colonne cave. Sceglie per la sua opera un luogo sublime, “una radura nella foresta di Houthulst”, dove lo strano monumento dondola piano nell’aria immobile. Meraviglia, visione onirica, questa cattedrale di nebbia, spirito fatto materia tanto quanto la materia si fa spirito nella concezione proustiana dell’œuvre-cathédrale. Tutto è reale qui, però, come recita il titolo del primo libro di Willems; se si descrive la cattedrale di nebbia nei minimi dettagli, come Proust descrive la chiesa di Saint-Hilaire de Combray, se vi si arriva magicamente, come al castello misterioso del Grand Meaulnes, o disseminando il sentiero di sassolini come in una fiaba di Perrault, lo spazio e il tempo sono segnati dallo spartiacque della guerra. Il padre del narratore afferma di essersi recato nella foresta di Houthulst la notte della vigilia di Natale del 1909, di aver assistito in quell’occasione al miracolo dell’Effimero, e chiude il suo racconto con un monito: “Non andare mai nella foresta di Houthulst. Tra l’altro è stata quasi del tutto distrutta nel 1918 durante una battaglia micidiale tra l’esercito belga e quello tedesco”. Non resta che portarsi la chiesa dentro e cercare di trasmetterne l’immagine attraverso la letteratura.
È probabile che Willems trovasse un modello per la sua cattedrale anche nel luogo dove nacque, crebbe e tornò a vivere dopo la Seconda guerra: la tenuta familiare di Missembourg. Questo maniero dalla bianca facciata tricuspidata custodisce ancora la magia dei relitti. È il luogo dove si congiungono le attività del poeta, quel Leggere e Scrivere oggetto della seconda parte del libro, due archi che abbracciano la creazione, due sentieri che, ancora una volta proustianamente, si ricongiungono nel “viaggio che porta ai confini della parola”.