Non è una novità la passione per H.P. Lovecraft da parte dei rockers. Paul Roland è infatti, prima e forse più che scrittore e giornalista, un musicista emerso durante la transizione dal punk al new wave britannico e afferente al gran calderone della neopsichedelia. Ideale continuatore del suo idolo Marc Bolan e del glam rock dei T. Rex, devoto cultore dei Velvet Underground e di Syd Barrett, ma anche del rock’n’roll e del rockabilly statunitense (ha riconosciuto il suo debito nei confronti dei Creedence Clearwater Revival di John Fogerty), è stato definito una Kate Bush maschio, o “il Lord Byron del rock”, lasciando ben 17 vinili, tra il 1980 e i giorni nostri, a testimonianza del suo talento musicale. Dopo aver toccato ripetutamente temi gotici e costellato le sue canzoni e i suoi album (Re-Animator del 2007 o Nevermore del 2008, per esempio) di rimandi espliciti a Poe e Lovecraft, Roland – già autore di due biografie di Marc Bolan e di vari volumi nel filone dell’Occulture – ha dedicato finalmente un breve e scorrevole testo alla vita e all’opera del Visionario di Providence.
Pubblicato un paio di anni fa da Tsunami, casa editrice alfiera del rock e del panorama musicale internazionale, viene ora ristampato dalla controparte gemella Agenzia Alcatraz dedita al fantastico e al weird con raffinate collane come Solaris e Bizarre, quasi a sancire la posizione caratteristica di Roland, ponte ideale fra musica e narrativa fantastica.
L’approccio del rocker a Lovecraft è semplice e diretto, non ci si aspettino sottigliezze critiche o nuove scoperte biografiche, Roland non è Joshi, ma una serie di intelligenti osservazioni sulla figura dello scrittore e su un certo numero dei suoi principali racconti (probabilmente i preferiti di Roland). La lettura è adatta più che altro a un neofita, un lettore che abbia appena scoperto la narrativa di Lovecraft, magari conoscendone solo un racconto o due, e cerchi un inquadramento rapido e preciso sull’autore e un orientamento su come proseguire l’esplorazione dei suoi testi. Non manca però nessuna delle questioni fondamentali lovecraftiane, la ricca iconografia – a base di foto e riproduzioni di copertine di vecchi pulp – è accattivante, la bibliografia citata è ben aggiornata e le fonti sul web o i riferimenti filmografici utili e documentati.
Un libro piacevole e focalizzato su una prospettiva “moderna” di HPL, molto più corretta e nitida dei rigurgiti e dei meteorismi verbali della critica italiota con pretesa di ufficialità, in realtà consorteria di neofascisti e fantafascisti, “tradizionalisti” ed “evolomani”: i pretesi “antimoderni” che vorrebbero artatamente monopolizzare un’immagine contraffatta dello scrittore (e se è per questo, anche di altri, Tolkien ne è un esempio). Lasciando ampio spazio alle testimonianze della moglie Sonia Greene, un’immigrata ucraina di origine ebraica, e di vari amici e corrispondenti, invece Roland lascia emergere l’immagine di un Lovecraft assai poco consono alle mitologie propagandate dai destrorsi: tutt’altro che eroico, virile, “legionario” (aggettivi che si sprecano nella loro retorica), esatto contrario del fantino di tigri in rivolta contro il mondo moderno, o dell’uomo “differenziato, in piedi tra le rovine”, prospettato nei risibili deliri del poligrafo paraplegico e barone farlocco Julius Evola, idolatrato dai neofasci lovecraftiani o meno. Più che antimoderno Lovecraft appare un imbranato, un inetto nella tradizione – modernista per l’appunto – del tardo decadentismo. Ossessionato dall’ombra della tara genetica del padre sifilitico, che teme possa ripresentarsi in lui; succube di una madre possessiva e nevrotica che gli ripete che è troppo brutto per uscire fuori di casa; probabilmente omosessuale e impotente, nonostante le cavalleresche smentite della moglie Sonia. E Sonia doveva davvero amarlo molto per perdonare la sua goffaggine, la sua anaffettività, le patetiche affettazioni dietro le quali si schermiva e soprattutto lo squallido razzismo e antisemitismo indelicatamente ostentato anche in presenza di lei ripetendole che, anche se era ebrea, il fatto che un gentleman ariano come lui l’avesse sposata, la riscattava in pieno (per questo motivo la figlia che Sonia aveva avuto da un precedente matrimonio non volle mai incontrarlo). Se Lovecraft fa pena, piegato dai complessi d’inferiorità e dalla paura del mondo, Sonia desta invece tutta la possibile ammirazione: una donna capace di rinunciare anche alla propria dignità per amore di un uomo così ottuso da non essere mai riuscito nemmeno a capire quanto non lo meritasse.
Per fortuna Lovecraft almeno scrive, l’unica cosa che sa fare nella vita (o meglio, come puntualizza Houellebecq, contro la vita: non contro il mondo moderno o la vita moderna, ma contro qualsiasi mondo, qualsiasi vita): sebbene i suoi racconti siano, il più delle volte, sgangherati e stilisticamente involuti, sovrabbondanti di aggettivi ripetitivi e scontati, prolissi nella sintassi e arcaici nel lessico, sono nonostante tutto convincenti: i mostri funzionano, gli incubi fanno davvero paura, perché la paura di chi scrive non è la costruzione artefatta di un poseur, come tutto il resto di lui – il razzismo, i gusti antiquari, le affettazioni britannicizzanti, lo snobismo – la paura no: quella è autentica. Ecco perché Lovecraft, pessimo scrittore e uomo ridicolo se mai ve ne furono, si è comunque guadagnato un posto – meritato – nella storia della letteratura. Tutto il resto è finzione, la tragedia di un uomo ridicolo, ma la paura è reale: questo ci ribadisce Roland, con buona pace degli “antimodernisti” in vana cerca di ammosciati vessilli.