Andrea Zanzotto scriveva, a proposito di Paul Celan, di come l’amore assoluto, la sua violenza “senza oggetto”, abbia permesso al poeta rumeno di raggiungere altitudini e zone ctonie della lingua altrimenti inarrivabili. Una “poesia-strappo”, senza dubbio: quanto di più vero si sia potuto scrivere dopo le macerie del Novecento, dopo Auschwitz. E senza nostalgia per qualcosa di simile a un implacabile rovescio, una serie incontrollata di sussulti durante la traversata dell’inferno che avrebbe condotto all’annichilimento della lingua.
Per coloro, studiosi o semplici lettori, che hanno potuto confrontarsi con la poesia di Celan è indubbio come sia emozionante ritrovare in una bella edizione la prima traduzione italiana apparsa nel 1976 a opera di Moshe Kahn con la collaborazione di Marcella Bagnasco – si trattava di un volume dello Specchio Mondadori, voluto fortemente da Vittorio Sereni fin dagli anni Sessanta quando assunse la carica di direttore editoriale della Mondadori. Impressiona sapere che Celan scrisse a Kahn un mese prima della sua “caduta” nella Senna (avvenuta nell’aprile del 1970) annunciandogli che lo aveva scelto come traduttore italiano delle sue poesie. A questo proposito il libro dell’Orma contiene una sentita postfazione di Helena Janeczek in cui racconta alcuni fatti personali e editoriali riguardanti Celan e la realtà poetica di quegli anni, con nomi e cognomi.
Moshe Kahn, traduttore fra gli altri di D’Arrigo, Levi, Camilleri, Pasolini, Malerba, introduce la rinnovata edizione con stringata sobrietà ricordando che negli anni successivi al suo primo lavoro la fama del poeta è cresciuta ovunque in Italia e in Europa, con edizioni e curatele di gran valore. Vale ricordare, naturalmente quelle varie di Giuseppe Bevilacqua confluite poi nel Meridiano (1998), e quelle di Michele Ranchetti e Dario Borso. Kahn, dopo cinquant’anni, rimette mano alla sua versione, aggiunge alcuni testi tratti da volumi non ancora editi all’epoca, e si avvale del nuovo collaboratore e amico Vittorio Tamaro, non potendo che ricordare con riconoscenza la co-traduttrice Marcella Bagnasco scomparsa nel frattempo.
Dall’esilio fisico all’esilio della propria lingua Celan si espone integralmente tenendo fede alla strada in un destino reale e riconosciuto: i messaggi in bottiglia, secondo un’immagine a lui cara, giungono come progetti che in fondo non fanno che aiutare il modellamento della propria vita. Un pensiero della poesia che viene al lettore attraverso questa antologia ancienne e nuova al contempo. Tutto intimamente scritto e riscritto in quella tragica concordanza con Osip Mandel’štam che lo spinse a tradurre molte sue poesie in lingua tedesca negli anni Cinquanta.
Celan è passato per le fibre della realtà, investendosi della perdizione, e rileggendolo possiamo capire che non fu la sua disfatta annegare nelle acque della Senna, ma la disfatta di coloro che avevano apparecchiato lo sconvolgimento dell’esistenza di milioni di esseri umani. Come poteva essere ancora integra la lingua del poeta di Cernovitz? Non poteva esserci una lingua ancora integra. Per questo, oggi, di fronte a questo libro si sente tutta l’eco della frattura ancora presente nel cuore dell’Europa.