La vita di Stephen Crane, morto a ventinove anni non ancora compiuti, assomiglia a quella di un asteroide dardeggiante che solca lo spazio interstellare e brucia inesorabilmente l’orizzonte dietro di sé. Nato a Newark nel 1871, sembra che “Stevie” appena sedicenne avesse già scritto parecchio, tra cui – praticamente quasi da moccioso – il racconto Uncle Jake and the Bell Handle. Nel 1888 lavorò, con il fratello Townley, per un’agenzia stampa di Asbury Park, “Mecca estiva del metodismo americano” (sì, la stessa Asbury Park di Bruce Springsteen); nel ’92 i suoi articoli, reportages e short-stories cominciarono ad apparire sul “Tribune”. Frequentò la Bowery di New York con morbosa, analitica curiosità. È qui, in una stamberga di Manhattan abitata da studenti di medicina, che fiorisce dal fango Maggie. Ragazza di strada, romanzo sull’omonima fanciulla dei bassifondi urbani. Non fu un successo. Dal dicembre del ’94 cominciò la pubblicazione a puntate di Il segno rosso del coraggio – dedicato alla guerra civile americana – su alcuni (sei, a quanto pare) quotidiani americani. E così a soli ventitré anni si accende, ratto, l’astro Crane.
Folgorante è la presentazione che fa Paul Auster nella sua voluminosa biografia (oltre mille pagine nell’edizione Einaudi) dedicata all’autore jerseyano. Leggiamo tutto il capoverso iniziale di Ragazzo in fiamme, in cui Auster sottolinea con decisione l’importanza storico-letteraria di Crane: “Nato il Giorno dei morti e morto cinque mesi prima del suo ventinovesimo compleanno, Stephen Crane visse cinque mesi e cinque giorni nel XX secolo, stroncato dalla tubercolosi prima di aver potuto guidare un’automobile o vedere un aereo, guardare un film proiettato su un grande schermo o ascoltare una radio, un personaggio del tempo delle carrozze a cavalli che si perse il futuro destinato ai suoi coetanei, non solo la costruzione di quelle macchine e invenzioni miracolose ma anche gli orrori dell’epoca, compresa la distruzione di decine di milioni di vite nelle due guerre mondiali. Suoi contemporanei furono Henri Matisse (maggiore di ventidue mesi), Vladimir Lenin (diciassette mesi), Marcel Proust (quattro mesi) e scrittori americani quali W. E. B. Du Bois, Theodore Dreiser, Willa Cather, Gertrude Stein, Sherwood Anderson e Robert Frost, che vissero fino al nuovo secolo inoltrato. Ma le sue opere, che sfuggivano ai canoni di quasi tutto quello che lo aveva preceduto, furono così radicali per il suo tempo che ormai Crane può essere considerato il primo modernista americano, quello che più di tutti ha la responsabilità di aver cambiato il modo in cui vediamo il mondo attraverso la lente della parola scritta”.
Nel ’95 Crane viaggia prima in lungo e in largo per gli USA, poi sconfinando in Messico: scrive intanto poesie (I cavalieri neri e altri versi, 1895), diviene corrispondente di guerra da Cuba, conosce Cora Taylor, compone il suo terzo romanzo: La madre di George (1896), tradotto ora da Luca Briasco per minimum fax. Siamo ancora nella Bowery, è ancora l’età della giovinezza à la Huckleberry Finn: George Kelcey ha una fidanzata, una madre non comprensiva, una banda di amici dediti alla bisboccia (forse il lontano modello della Confraternita dell’uva di John Fante). “Nella pioggia vorticosa che si era scatenata al tramonto la strada brillava di quella tinta bluastra che tutti condannano quando la vedono catturata nelle fotografie. C’erano lunghe file di negozi, che splendevano di una luce dorata. Qua e là, dalle vetrine delle drogherie o dai lampioni rossi che indicavano la posizione degli allarmi antincendio, una fiamma violacea e incerta si proiettava sull’asfalto bagnato”. Bastano queste poche battute d’esordio (secondo Auster tra le “più sconcertanti di tutta la letteratura americana”) per capire come l’etichetta “naturalismo zoliano” stia abbastanza stretta a Crane che già sta virando verso regioni di espressionismo esacerbato, anticipando in tal modo gran parte della scrittura europea a venire (si pensi al nostro Tozzi o al Werfel di I quaranta giorni del Mussa Dagh). D’altra parte, Auster evidenzia come il collega abbia agilmente “rovesciato le convezioni del romanzo di guerra” (con Il segno rosso del coraggio) e non solo.
Nel triennio che gli rimase da vivere, Crane ebbe il tempo di far naufragio con il Commodore, seguire la guerra greco-turca in qualità di giornalista del “New York Journal”, incontrare Conrad in Inghilterra (1897); seguire la guerra ispano-americana per la rivista inglese “Blackwood’s Magazine”, far ritorno a Cuba e negli Stati Uniti, beccarsi la malaria (1898); salpare nuovamente per l’Inghilterra, tenere un mega-festone di Natale con Conrad, Henry James, H. G. Wells (1899), concludere la sua esistenza terrena nel sanatorio di Badenweiler nella Foresta Nera (1900). Ma: “La prosa continua a vibrare, lo sguardo a penetrare, i testi a bruciare”.