Il teatro terrestre di Patrizia Cavalli ritorna col suo pulsare intenso ma controllato, padrone di tessiture e sponde. Le prime vengono articolate con ritmi ora lenti ora sbrigativi, intensi o scoccati come dardi, le seconde indotte a essere campo di concentramento dove imperativo sta l’assolo. Il teatro di Patrizia Cavalli è sempre allestito come un monologo, feroce e leggero, affabile e saporito, ossessivo quanto basta perché in certi punti ci si conceda il bisogno rincuorante di “una bottiglia buonissima di whisky”. La Vita meravigliosa ha sopra di sé un cielo, da guardare al sommo delle stelle, delle costellazioni, per poi piombare giù, velocemente nella carne umana, nel corpo della poetessa. Perché questo? E gli altri dove sono? Sembra un mondo pressoché deserto, rare le presenze intorno, la mente è padrona dell’universo terrestre dove forse le cose, animate e non, si attendono da Patrizia Cavalli calci e carezze, sguardi improvvisi e aguzzi o allontanamenti veloci e definitivi.
Mistica nelle sue esattezze verbali, si suggerisce nella quarta di copertina, dove vieppiù la ricchezza poetica della raccolta viene indicata al lettore. Leggere Vita meravigliosa fa ricordare come la giustizia tesa alla lingua, in altre infelici ricerche poetiche, venga tralasciata e dimenticata. Qui è ardente e ostinato l’esercizio dinamico del raschiare qualsiasi cosa, anche il proprio corpo, per giungere a una degna comprensione della realtà. Se non altro quella che vediamo, poiché infinite sono le masserizie dell’universo a noi ignote. Patrizia Cavalli cerca incessantemente la speranza, e nei vuoti improvvisi soffia contro la nebbia, e si prende qualche conforto inebriante. In alcuni versi racconta l’amore, in altri sfugge alle proprie salde rime per tuffarsi nell’abbraccio della morbida sostanza della prosa. Ed è nelle pause dai fulminei epigrammi che troviamo la realtà della sua anima, che contrasta quella del mondo, permettendo al lettore un affetto, una carezza.
Nel libro si disfano molte cose, e sempre si riprendono afferrandole al volo con ampi circoli e guizzi estemporanei. Non si permette ad alcunché di perdersi, con la tenace e continua battaglia pronunciata e visualizzata dai versi, riuscendo la poetessa a conquistare una netta definizione del mondo, e le onnicomprensive varianti della lingua italiana. Stare dalla parte della lingua è come crescere nell’ardore della vita. Averne cognizione significa accogliere temi, registri, ossessioni e tutto l’armamentario che soltanto un poeta può sturare dalle proprie vene e arterie profonde. Patrizia Cavalli prova a rappresentarsi il paradiso, attraverso la figura di Elsa con i gatti sui prati. In questo poemetto l’ospite si ritrova ammantata di grazia e perfino il paesaggio diventa un vantaggio innegabile, fuori di casa per una volta, per una volta oltrepassata la soglia di casa.
Uguali affinità, forse biografiche, del resto s’intendono in quella “longhiana” raccolta di racconti uscita lo scorso anno: Con passi giapponesi ci appare come il cantiere lasciato a sopravvivere da sé, in attesa di tempi fausti, o occasioni in cui amore e creazione trovano un accordo. Allora i cancelli si spalancano e il codice da terrestre può trasformarsi in celeste. Una varietà ritrovata nella sostanza visionaria della prosa, trascorrendo in quel che si dice poesia: talvolta, bisogna dirlo, le due forme insieme veramente “cambiano il mondo”.