Patricia Highsmith, Pat ovvero la regina del mistery, secondo Gore Vidal (che se n’intendeva) grande autrice “modernista”, una bellezza dai tanti turbamenti, forse soggiogata dal protagonista blandamente seriale, nonché geniale killer, Tom Ripley. Capace di sedurre anche attraverso gli uomini, amò questo semi-alter ego in grado di truffare e espletare le proprie doti di assassino al di là del tempo e dello spazio. Originaria del Texas (1921) non si fece mancare l’Europa, trascorrendo gran parte della sua esistenza in Francia e Svizzera. Fra entusiasmi altrui (di critica, di pubblico) e vita privata che fatalmente la introdusse a memorabili plot narrativi, si può dire che la regia, creativa e trasgressiva, della sua scena ha mantenuto a lungo struttura e visione ben ferme, fors’anche glaciali se non fosse che – potendo oggi sfogliare la gran massa di taccuini e diari – passioni e divergenze, e antipatie epocali, spazzano via molti dilemmi sulla natura di questa donna di estesa attività e rare frivolezze mostrate. Le poche presenti nell’animo, e nel corpo, sono tenute a bada e solo per vezzo sfuggono all’aperto: bastano alcune foto, sigaretta fra le dita, sguardo puntato alla radice del naso dell’osservatore.
Il bigottismo americano le sta stretto, pubblica sotto pseudonimo una gran storia lesbica (Carol) nel 1952 postbellico e razzista, le sue storie intrigano Hitchcock, Truman Capote la spinge verso campi comuni. E ancora oggi registi di grido, e di alterne fortune artistiche, come Todd Haynes e Adrian Lyne trasmigrano al cinema i suoi romanzi: rispettivamente Carol e Acque profonde. Ma ormai tutta la seconda metà del Novecento, epoca in cui Highsmith ha sparso la propria vocazione verso le oscurità psichiche risiedenti in tutti noi, è irrimediabilmente perduta, e come dissentire da coloro che pensano quanto fossero migliori quei dilemmi culturali e i decenni intricati rispetto al terribile ventennio attuale?
I titoli noti dal 1950 in poi, portati in Italia da Bompiani (come tantissimi e insuperati scrittori americani), hanno creato un interesse forsennato, tanto che a ogni uscita gli schemi diventavano via via più sconcertanti e rivelatori di una fortezza che Highsmith innalzava ogni giorno intorno a sé. Fra i tanti, Sconosciuti in treno, Il grido della civetta, La spiaggia del dubbio, Diario di Edith, inframezzati dal ciclo di Tom Ripley: un’eredità passata alla Nave di Teseo con non pochi meriti.
E oggi, a valle di rarissime interviste, studiosi e semplici lettori “innamorati” della scrittrice possono attingere a questo migliaio di pagine tratto dalla serie ordinatissima di quaderni (diciotto diari e trentotto taccuini per anni nascosti nel retro di un armadio per la biancheria) trovati nella dimora della scrittrice. Una pianificazione, afferma Anna von Planta, curatrice del volume, dimostrata anche dall’uniformità dei fascicoli e dalle istruzioni accluse, editing compreso e mai abbandonato. L’enorme lavoro di trascrizione di un testo manoscritto, e spesso criptico, ha voluto dire togliersi dall’errore di riprodurre tutto tale e quale: soluzione rifiutata da Highsmith ancora in vita, durante l’approntamento delle opere complete effettuato insieme a Daniel Keel, fondatore della casa editrice svizzera Diogenes e detentore internazionale dei diritti. Chiacchiere, indiscrezioni e pettegolezzi via dunque dall’enorme “libro di lavoro” e “parco giochi”, restando intatti gli esercizi di stile, le riflessioni su arte e scritture e naturalmente giudizi e annotazioni su amanti e amiche pubbliche o private. La Pat impertinente della giovinezza, e la Highsmith irriverente, misantropa e geniale della maturità, sono riunite nel motore potente di queste pagine “della vita” poste nella nostra lingua da una valorosa – bisogna dirlo – Viola di Grado nella veste di traduttrice.