Noëmi Lerch è una trentunenne scrittrice svizzera che, per quel che è dato sapere, vive ad Aquila (cittadina svizzera da non confondere col capoluogo abruzzese). Sul sito della casa editrice Die Brotsuppe, che ha pubblicato originariamente il suo romanzo, potete trovare la sua foto: sembra ancora più giovane, e ha un look minimale, semplice, tutt’altro che metropolitano (giusto un’idea di grunge o indie, se proprio vi piacciono le etichette…). Si fatica a non identificarla con l’io narrante del suo romanzo, una giovane donna che vive per un anno in una casa di montagna da qualche parte delle Alpi dove si parla tedesco, presumibilmente in Svizzera, anche se non lo si dice mai chiaramente. La casa è del nonno, del quale sappiamo solo che è un alpinista; nei pressi c’è la fattoria della Contadina (questo vuol dire nel tedesco parlato in Svizzera, il titolo originale Die Pürin), una donna che vive anche lei da sola, nonostante sia sposata. Il marito è in giro a sciare; lei bada alle sue mucche (o vacche, come le chiamano in realtà quelli che veramente le allevano), alle galline, gira con una vecchia moto o a cavallo, ha un vecchio gatto di nome Mephisto e un corvo mutilato.
La vita scorre tranquilla seguendo, com’è inevitabile in campagna e in montagna ancor più inevitabile, l’avvicendarsi delle stagioni, che dettano le opere e i giorni. Falciare, ammucchiare il fieno, prepararsi per l’inverno, accudire le vacche, portare i vitelli al macello (restandoci magari male, ma non se ne può fare a meno), passato il freddo portare le vacche al pascolo, su all’alpeggio. Sono cose che si fanno da secoli, e anche se ora ci si aiuta col trattore e il transporter, alla fine la produzione del latte sui monti quella è.
Però questo romanzo autenticamente tascabile intreccia a questo succedersi di lavori agricoli sempre uguali a se stessi ricordi della narratrice, nonché della Contadina; e anche della nonna della narratrice, presente in quanto fantasma, non tanto ectoplasma quanto evocazione della memoria. E ogni tanto ci sono dei comprimari a dire la loro, da Milo il camionista all’uomo delle oche che abita nella fattoria più vicina. La lunghezza del libro farebbe pensare a un racconto lungo più che a un vero e proprio romanzo; ma in così poche pagine Lerch riesce a fare entrare diverse cose, diverse vite, diversi tempi, anche se per frammenti, per accenni, per segni minimi, mai spiegati del tutto, sui quali non ci si dilunga mai. Sta a noi capire, o intuire.
S’intuisce per esempio che l’anno passato a falciare il fieno e mungere le vacche per la giovane narratrice è una pausa tra una vita e un’altra; che, a differenza della Contadina, non si stabilirà lì, non metterà le radici in quella terra di pascoli, boschi e frane incombenti (con pietre morandiniane che vengono giù ogni tanto). Non posso ovviamente anticipare come si chiuderà questa parentesi; posso solo dire che Lerch ha sicuramente un modo originale e spiazzante di raccontare una vita dai ritmi arcaici e immutabili. Il mondo in cui ci porta è antico, ma lo sguardo che vi rivolge decisamente no. L’effetto è senz’altro interessante.