Pascal Mercier è in realtà lo pseudonimo letterario del filosofo svizzero Peter Bieri, classe ’44, docente in pensione all’Università di Berlino, esperto di filosofia morale, gnoseologia e coscienza (si pensi al cosiddetto Trilemma di Bieri, una serie di assunzioni sul rapporto corpo, anima, mente). In qualità di scrittore, Bieri/Mercier ha scritto cinque romanzi, di cui il più noto è Treno di notte per Lisbona (traduzione di Elena Broseghini, Mondadori 2008) – trasposto al cinema dal regista Bille August con Jeremy Irons nel ruolo del protagonista –, mentre l’ultimo è Il peso delle parole, uscito in tedesco nel 2020 e ora nelle librerie italiane grazie all’ottima versione di Elena Broseghini. Attore principale dell’opera è l’inglese Simon Leyland (probabilmente alter-ego del professor Gregorius di Treno di notte per Lisbona), traduttore di professione, una persona – potremmo dire – innamorata delle parole. Con un obiettivo fisso nella vita: un po’ come l’Autodidatta della Nausea di Sartre che studiava in ordine alfabetico i libri della biblioteca, Leyland desidera imparare una dopo l’altra le lingue parlate nel Mediterraneo (“e non dimenticare il maltese!”).
Rivelatoria del carattere di Simon è la connotazione descrittiva proposta nelle prime pagine del romanzo: “Tutto ciò che per lui avesse mai contato erano le parole. Ogni cosa esisteva realmente solo quando veniva nominata e formulata in parola. Non l’aveva deliberatamente scelto, gli era capitato ed era stato così fin dall’inizio. Spesso aveva desiderato di essere-presso le cose senza parole, essere-presso le cose, essere-con gli altri, i sentimenti e i sogni, ma ogni volta puntualmente si erano frapposte le parole. Faceva esperienza delle cose solo quando le afferrava per il tramite della parola, diceva talvolta, e allora la gente lo guardava incredula. Solo con Livia non aveva avuto mai bisogno di parole”.
Livia è la moglie del protagonista, che aveva ereditato una libreria a Trieste: da Londra i coniugi si erano trasferiti d’emblée nella città di Svevo e Joyce (il nome scelto da Mercier per la consorte di Leyland non è dunque casuale: Livia Veneziani era la moglie di Svevo, mentre Anna Livia Plurabelle è il personaggio principale di Finnegans Wake). Livia, scomparsa da qualche anno, è anche la destinataria delle lettere di Simon, “scrivere a lei era un modo di scrivere a me stesso”.
In un’intervista del 2007 apparsa sul Giornale Mercier, sempre a proposito di Treno di notte per Lisbona, confessava: “Gregorius e Prado sono due poeti: credono che le parole siano più importanti delle cose e che il nostro atteggiamento verso il mondo sia strettamente definito dalle parole che usiamo. Ne consegue che qualcosa è reale solo se articolato e catturato nei libri. Il mio è un libro sul linguaggio. Il discorso sul rapporto tra parole ed emozioni è più complicato e riguarda la loro diversificazione. Il modo in cui parliamo di noi stessi, della nostra anima e mente, non è staccato da ciò che siamo, si definisce in modo creativo con la parola. Ho voluto riconoscere il valore delle parole, ma anche difendere l’importanza della poesia nel formare la nostra identità emozionale, praticamente tutto ciò che conta nella vita”.
Anche Il peso delle parole è ovviamente un testo sull’importanza – sul peso specifico, quasi corporeo, tattile – del linguaggio (non dimentichiamo che Bieri ha insegnato Filosofia del linguaggio a Berlino). Ciò fa sì che ci sia un’evidente continuità con i romanzi precedenti, ma soprattutto mette in chiaro la vocazione umanistica – sotto il profilo filosofico: continentale – della letteratura e del pensiero di Mercier. Da Trieste si ritorna ancora una volta a Londra, sempre a causa di un’eredità: l’esistenza di Leyland è nuovamente sconvolta (da un errore medico), eppure l’ossessione per le parole e per i libri rimane intatta. Il ritorno nella capitale inglese, la paura per la diagnosi e la morte dello zio sono le direttive per sconfinare in temi esistenziali che riguardano il tempo e la morte, il desiderio e il significato stesso della vita. Mercier è bravo a presentarci personaggi colti e complessi senza sovraccaricarli del “peso” della cultura.