Parte di quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il bene

Paul Tillich, Il demoniaco, tr. Luca Crescenti, Edizioni ETS, pp. 62, euro 10,00 stampa

Fulminante contributo di uno dei più importanti teologi del secolo scorso, nonché tassello della grande riflessione novecentesca sulla filosofia della storia, Il demoniaco (1926) di Paul Tillich ci viene restituito in tutta la sua densità concettuale dalla Biblioteca di Saggi del ‘900 di ETS, grazie all’accurata traduzione e curatela di Luca Crescenzi. Siamo nella Berlino degli anni Venti e in una fase particolarmente delicata della riflessione teologica moderna. Lo scossone apportato dalla filosofia nietzscheana prima e dalla bufera del Primo conflitto mondiale dopo costringono la chiesa evangelica a un’imponente operazione di confronto con le più importanti manifestazioni del pensiero dell’epoca: partendo dagli strascichi dell’opera del filosofo di Basilea e giungendo alla fenomenologia di Edmund Husserl, dalla sperimentazione filosofico-letteraria del gruppo George-Kreis sino ai prodromi dell’esistenzialismo, dalla sociologia alla psicologia, la teologia è costretta a prendere posizione sullo scacchiere della propria epoca e ad avviare una fervida fase di ibridazione e ripensamento delle proprie coordinate culturali.

In questi anni il cosiddetto Kairós-Kreis, il circolo di teologi socialisti riunito attorno alla figura di Paul Tillich, inizia a lavorare sulla filosofia della storia, offrendo dei contributi che saranno essenziali per le teorie del francofortese Institut für Sozialforschung (Istituto per la Ricerca Sociale). Ed è in questa congiuntura che si colloca la riflessione tillichiana sul demoniaco: intesa come la necessità di fornire un inquadramento teorico per quell’elemento distruttivo presente in ogni opera dello spirito umano, essa riprende e amplia una categoria già molto diffusa negli ambienti letterari dell’epoca (nel 1916 il germanista Friedrich Gundolf pubblicava il celeberrimo Goethe. Eine Biographie, studio monografico che riportò notevolmente in auge la categoria del demoniaco), cercando di fornirne un excursus di carattere storico-religioso, storico-filosofico e storico-artistico. Ma in cosa consiste questo elemento demoniaco e come si articola nella creatività umana? La risposta di Tillich è lapidaria: “la profondità del demoniaco è il suo elemento dialettico” e tale elemento dialettico della creatività sarebbe presente sin dall’idea stessa di Dio.

Secondo il teologo, infatti, elemento precipuo della possibilità di creazione è la vitalità, il divenire. Il divenire, come scriverà nel primo volume della sua monumentale Teologia sistematica, pubblicata tra il 1951 e il 1956 (Claudiana, 2006, 4 vol.), è indissolubilmente legato all’idea di dinamica (ossia al moto prodotto dalla polarità dialettica), mentre la quiete è prerogativa della pura forma, la quale costringe il divenire a imbrigliarsi nella staticità del finito e del determinato. Per Tillich, senza una dialettica che produca tensione non vi è dinamica; senza dinamica, ossia senza moto, non vi è creazione. Se l’assoluta negazione della forma è incapace di creazione, lo stesso può dirsi della forma pura: se ogni creazione è dar vita a un mutamento rispetto allo stato delle cose che la precedeva, allora la pura forma è impossibilità di mutamento. Ne consegue che Dio stesso, in quanto primo creatore (“creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”), non possa esimersi da tale principio e, al contrario, divenga l’esempio paradigmatico di qualsiasi processo creativo.

Scrive Tillich: “Se Dio è il Dio vivente, se è il fondamento dei processi creativi della vita, se la storia ha importanza per Lui, se non v’è, in aggiunta a Lui, un principio negativo che possa spiegare il male e il peccato, come si può evitare di postulare in Dio stesso una negatività dialettica?”. Il mondo della Creazione è infatti il risultato dell’incessante tensione dialettica tra l’essere e il non-essere: il non-essere, infiltrandosi nell’assoluta indifferenziazione dell’essere-in-sé, produce la differenza e, quindi, la realtà finita. L’infinito (das Unendliche) deve essere negato della sua assolutezza per divenire finito (das Endliche). Vi è, in Dio, una implicita tensione dialettica: è anzi egli stesso a rendere possibile tale tensione e, quindi, a dar vita al dinamismo creativo dell’essere e di tutto ciò che nell’essere risiede. Recuperando la tradizione mistica di Jakob Böhme e le sue rielaborazioni romantiche nella filosofia di Friedrich Schelling, Dio è al contempo fondamento originario di tutte le cose (Urgrund), abisso insondabile e senza forma (Abgrund) e ciò che è privo di fondamento e di fine (Ungrund). In esso risiedono la tensione alla forma, tramite cui il Reale si differenzia in strutture finite e giunge all’essere, e l’impulso alla distruzione della forma, tramite cui il Reale tende a voler riprodurre l’abisso inesauribile dell’essere. Questi due poli coesistono nel divino come un’unità essenziale e inscindibile, che determina l’incessante e libera creazione di tutte le cose.

Nell’imperfezione dell’esistenza, tuttavia, questi due principi si separano l’uno dall’altro e possono manifestarsi nella loro relativa o perfino assoluta autonomia. Il demoniaco è, per il teologo, proprio questo «emergere in ogni cosa di quel fondo creativo che si oppone alla forma»; è, sostanzialmente, l’affacciarsi «relativamente autonomo» dell’elemento distruttivo che è sempre inscritto in qualsiasi cosa esistente. Tale azione distruttiva non deve, tuttavia, essere intesa come puro annichilimento o pura perdita di senso. Anzi, è proprio la «tensione fra creazione e distruzione della forma» a distinguere il demoniaco dal «principio satanico, in cui la distruzione è pensata senza creazione». «Nel demoniaco», infatti, vi «è contenuto sempre il divino», perché in esso la negazione della forma è sempre indirizzata a creare la forma, e si muove nel segno dell’«intima infinità produttiva dell’essere», espressione del «“fuoco divoratore” che diventa vero abisso per ogni forma». Ricapitolando quanto detto, la distruzione apportata dal demoniaco è distruzione metafisicamente necessaria e viene così a configurarsi come forza ispiratrice/propulsiva della creatività umana. Attraverso questo pertugio interpretativo, Paul Tillich riesce quindi nell’intento di istituire un raccordo tra religione e arte, calando il dinamismo del divino nell’agire umano e offrendo una solida rappresentazione del suo operato all’interno delle maglie della Storia.

Il dettagliato contributo introduttivo di Luca Crescenzi evidenzia l’enorme rilievo storico di questo saggio non tanto per la produzione tillichiana successiva (numerosi sono i paragrafi della Teologia sistematica modellati sui motivi e sulle argomentazioni sviluppate in questo scritto), quanto piuttosto per lo specifico contesto in cui esso si è formato e solo successivamente diffuso. Dal Doktor Faustus manniano fino alla dialettica dell’illuminismo di Adorno/Horkheimer, molti sono i prodotti culturali che hanno risentito della sua forza suggestiva e, ancor più, del carattere ambiguo del suo oggetto: in ogni creazione dell’umano, delicato è l’equilibrio che bilancia forma e distruzione, e sottile è la linea che separa la disgregazione creatrice dall’orrore senza fondo. E sarà lo stesso Paul Tillich, a partire dalla fuga in America nel 1933, a dover assistere alla più grande e mostruosa conferma delle proprie intuizioni: a distanza di pochi anni dalla stesura del suo saggio, la Germania si sarebbe decisa a varcare quella linea, per mostrare al mondo intero il lato nemmeno più demoniaco, ma ormai solamente satanico, del potere.

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