Ci sono scrittori la cui vita è semplicemente inseparabile dalla loro opera: che non solo hanno attinto ai fatti della propria vicenda per costruire le loro narrazioni, ma si sono deliberatamente esposti come personaggi della loro narrativa. Viene da pensare a Ferdinand Céline, ovviamente; e anche a Frédéric-Louis Sauser, in arte Blaise Cendrars.
Nato poeta, e protagonista delle avanguardie che prima della Grande guerra sconquassano il mondo della poesia europea, perde una mano durante il conflitto, proprio la destra con la quale scriveva, e si reinventa come scrittore della mano sinistra, passando alla narrativa. E proprio alla metà degli anni Venti Cendrars scrive questo breve testo autobiografico (uscito poi nel 1929), preludio ai successivi libri nei quali Blaise si racconta, a partire da L’Homme foudroyé (1945). Non a caso la prima edizione riportava il sottotitolo Primo frammento di un’autobiografia, come ci spiega Riccardo Benedettini nella sua documentata introduzione.
Una notte nella foresta è un titolo volutamente fuorviante. Cendrars accenna solamente a “quella piccola picada attraverso la foresta vergine, un sentiero terribile che mi avrebbe condotto a questa bocca, una bocca di donna (…) la bocca di una donna elegante, che si mordicchia il rossetto, una bocca rossa” – ma di cosa sia successo in quella notte nella foresta brasiliana non dice altro. In realtà siamo a Parigi, lo scrittore è tornato da uno dei suoi tanti viaggi, ha consegnato al suo editore il manoscritto di Le Plan de l’Aiguille, prima parte del romanzo Les confessions de Dan Yack. Ma Cendrars è troppo irrequieto per fermarsi, scende dalla sua macchina solo per chiedere un sostanzioso anticipo all’editore, promettere altri libri, e ripartire di corsa per la Spagna sulla sua Ballot blu (per chi come me è ignorante sulle auto d’epoca, dirò che si trattava di un’automobile veloce e costosa; Édouard Ballot fu il mentore di un certo Ettore Bugatti…).
Questo snello volumetto è irrequieto, folle e travolgente come lo stesso Cendrars, che salta dal presente al passato prossimo a quello più lontano, e ogni tanto regala frasi folgoranti come questa: “Vado ai bagni. Mi attardo da un barbiere nella piazza del Théâtre-Français. Entro in svariati caffè. Evito i posti dove mi conoscono e le vie dove potrei rincontrare e urtare me stesso”. A differenza di altri scrittori che hanno fatto di se stessi personaggi, come dicono gli americani, greater than life, Cendrars (come Céline) non è un narcisista: si annoia soprattutto di se stesso. Per questo è sempre pronto a partire per gli angoli più remoti (allora) del pianeta. Per questo per lui è “mortale ogni ritorno a Parigi”.
E questo è anche il motivo per cui, onestamente, lo scrittore torna al suo fallimento romano, al disastro cinematografico che fece morire sul nascere la sua carriera di regista nel 1921: e le pagine dedicate a Roma sono ricche di perle come la seguente: “Gli sputi sul Corso, come le voci degli uomini che di notte giocavano alla morra nella cinta del Colosseo sono segno di una vitalità esausta più che di semplice incuria del Senato”. E proprio queste pagine dedicate all’Urbe Eterna sono tra le più interessanti di Una notte nella foresta, anche e soprattutto leggendo della Roma del 1921 e pensando allo stato attuale della città: “Qui tutto si sgretola, è malato, soccombe sotto una lenta spinta”. Particolarmente gustose le pagine sulle romane che assediano il regista-poeta-romanziere cercando di entrare nel mondo del cinema (prolegomeni a Bellissima…).
Però Cendrars non disprezza tutto della nostra capitale: per lui è eterna nelle “catacombe che franano”. Lo attira la Roma sotterranea, ctonia, quella “delle Sibille, la Roma demoniaca, la Roma dei negromanti”. Quella sì che è grande; e viene da pensare allora alla Roma misterica e notturna de Il segno del comando, mentre oggi va di moda quella borgatara della Banda della Magliana e dei clan malavitosi di Ostia. Il punto di vista sghembo e straniero dello svizzero-francese Cendrars, allora, lo si apprezza ancor di più.