Capita spesso che quanto di peggio sospettiamo stia per accadere nell’universo politico intorno a noi ci venga annunciato da un saggio, talvolta astutamente confezionato nella forma di instant book.
Lo scritto dal sapore emergenziale ha la virtù di parlarci esattamente come da tempo parliamo a noi stessi, ma recando con sé il potere illusorio della creazione di una comunità virtuale, fatta di lettori e talvolta elettori.
Una comunità che dovrebbe esorcizzare il male imminente per il solo fatto di esistere come massa critica.
Verranno di notte (pp. 208, Euro 15,20, Feltrinelli) è un palese tentativo di rinnovare quell’illusione.
Certo, pianificare l’uscita di una riflessione complessiva sul continente, firmata da Paolo Rumiz, sottotitolandola in modo apocalittico “Lo spettro della barbarie in Europa” e calendarizzandola alla vigilia delle elezioni dell’Unione deve essere sembrato fin troppo semplice per il marketing editoriale della Feltrinelli.
A differenza delle innumerevoli Cassandre da social, infatti, un giornalista conosciuto, serio ed esperto sa solitamente unire allo sguardo chirurgico sui sintomi della nuova peste l’indicazione delle prospettive per combatterla o contrastarla.
Rumiz però sceglie un approccio insolito, atipico per il suo profilo da viaggiatore critico.
Decide di osservare la peste da lontano, rinchiuso nell’isolamento del suo eremo posto nei boschi del Carso triestino – un territorio divenuto negli ultimi anni luogo di passaggio per i migranti in arrivo dalla Rotta Balcanica.
In questa solitudine, l’autore costruisce una narrazione in tempo reale, i cui capitoli sono scanditi dalle ore notturne di un giorno indeterminato dello scorso aprile.
Sono proprio queste strane unità aristoteliche di tempo e luogo a suscitare immediatamente un sospetto: ovvero che la trattazione degli argomenti sarà fortemente empirica, legata alle sensazioni, alle percezioni soggettive. Una narrazione impulsiva, emotiva, probabilmente influenzata da numerosi voli pindarici.
Fin dalle prime righe il sospetto si rafforza. Anche perchè ogni ragionamento sembra essere intervallato dalle canoniche piccole azioni e annotazioni domestiche, come ben si addice a questo genere di crepuscolarismo: la legna nel fuoco, la gatta sul divano, la natura esterna, il vento, eccetera.
Lungi dal sottovalutare il fascino di questa prospettiva (soprattutto nei lettori agèe), è sufficiente lo spazio di un capitolo per comprenderne i limiti.
Procedendo “a braccio”, Rumiz smarrisce fatalmente la necessaria lucidità dell’approfondimento, la razionalità analitica dello sguardo. Le riflessioni rimangono semplici annotazioni estemporanee in un diario continuo, e come tali corrono costantemente il rischio di precipitare nelle contraddizioni tipiche di una narrazione che si vuole improvvisata.
Un esempio.
Nella prima parte dell’opera vengono dedicate ben due pagine alle posizioni di Marine Le Pen sull’aggressione russa all’Ucraina. Rumiz scrive che la leader del Rassemblement National “appare a volte come una persona sensata” (p. 29) e che “riesce a dire cose condivisibili da molti” (p. 30).
Le teorie della Le Pen sono infatti le stesse di gran parte del mondo pacifista e di sinistra italiano: no all’invio di armi, sforzi diplomatici con la Russia, mediazione ad ogni costo con Putin, eccetera.
Peccato che solo pochissime pagine dopo, Rumiz emetta questa sentenza lapidaria: “Putin, il postcomunista, foraggia e benedice dal Cremlino i sovranisti d’Europa” (p. 45).
Quindi, se il Rassemblement National è uno dei maggiori movimenti sovranisti europei ed è subdolamente foraggiato/benedetto da Putin, quale autorevolezza potranno mai avere le posizioni della sua leader sull’aggressione in corso? Possono davvero essere ritenute sensate e condivisibili?
Prendiamo poi il tema delle migrazioni e delle loro ripercussioni sul continente.
Rumiz è durissimo, come sempre, tanto verso il razzismo quanto verso le politiche di militarizzazione delle frontiere: critica aspramente i rastrellamenti e le espulsioni dei migranti, allargando intelligentemente la visuale anche alla cultura che si fa denuncia, come nel caso del film Green Border della regista polacca Agnieszka Holland (p. 41-42).
Eppure dopo aver esordito ricordando l’importanza delle parole nel mondo contemporaneo, utilizza il termine “clandestini” per indicare i profughi che attraversano i boschi accanto la sua abitazione[1].
Una scelta terminologica che appare decisamente stonata, soprattutto per un professionista di così lungo corso, che dovrebbe conoscere bene la Carta di Roma.
Rimanendo sulla questione migratoria, è oltremodo curioso che per l’intero corso del libro Rumiz non senta mai l’esigenza di raccontare nulla su questi migranti in transito, così vicini alla sua casa, alla sua vita e così presenti nella sua città.
Non cita il docufilm “Trieste è bella di notte” e non fa riferimento alle innumerevoli realtà che si occupano di accoglienza e assistenza da anni, appena oltre la soglia di casa sua.
È un altro dei limiti di questa narrazione domestica da lockdown: quello di affidarsi istintivamente alla tecnologia delle comunicazioni per colmare le distanze.
Rumiz preferisce quindi contattare persone a lui care che vivono ai quattro angoli dell’Unione per avere un focus a livello locale sulle problematiche continentali.
Gli esiti di questa scelta non sono dei più felici.
L’autore infatti fa proprie le posizioni di un’amica (Mirjana) che a Vienna si occupa di politica internazionale e che dipinge la capitale austriaca come un crescente inferno di integralismo islamico.
“Hannovermarkt […] non è più Vienna, non è nemmeno più Austria, ma Kabul, Afghanistan […] Le strade di casa sua sono battute da bande di ceceni talvolta violenti o da arabi sfaccendati che fanno un sacco di figli e godono per questo di sussidi statali […] Uomini che non lavorano, si chiudono in ghetti, confinano le mogli in casa e restano nella loro bolla etnica senza imparare il tedesco” (p. 51).
Questo passaggio, così incredibilmente simile nello stile alla propaganda di tutti i movimenti sovranisti del continente, dovrebbe idealmente precedere la parte confutativa: quella nella quale il giornalista esperto o lo studioso rigoroso analizzano il problema, dimostrando come le sensazioni/percezioni di questo tipo siano spesso errate, ancor più quando esposte con un lessico non proprio coerente.
Come ad esempio gli “arabi sfaccendati” equiparati a ladri che rubano soldi pubblici (ma i sussidi statali per le famiglie numerose e i disoccupati non valgono anche per gli autoctoni?); oppure quel “bande di ceceni, talvolta violenti” che oltre alla contraddizione interna (sono criminali part-time?) nasconde anche il fatto che i ceceni si trovano in Austria non perchè portati dalla mafia, ma perchè fuggiti da una guerra sanguinosa voluta, guarda caso, da Vladimir Putin[2].
Rumiz, invece, lungi dal criticare quella sequenza di impressioni populiste, chiosa in questo modo: “Perchè lasciare in monopolio alle destre l’argomento immigrazione? Perchè consentire che queste percezioni inascoltate degenerino in razzismo? […] Le anime belle devono finirla di discettare davanti a un cafè crème e stare nel mondo, capire come questa realtà sbilenca venga percepita dal cittadino comune che paga le tasse, e come tutto questo confluisca in un pentolone che ribolle, fermenta, sfiata e deborda” (p. 53).
Appare davvero incredibile e sorprendente come un intellettuale del calibro di Rumiz possa collezionare una serie di clicheès così grezzi in così poche righe, senza alcun indugio.
L’idea che il consenso crescente verso i movimenti xenofobi sia una mera conseguenza del mancato ascolto dell’elettore medio da parte di radical chic che si ingozzano di caviale è uno dei ritornelli più falsi e assillanti ereditati dagli anni Novanta.
Rumiz lo sa molto bene, perchè lo utilizzò di frequente analizzando il leghismo secessionista di allora[3]: un fenomeno che secondo l’autore era in parte riconducibile all’incapacità del centrosinistra (persino di Prodi) di comprendere il “profondo malessere” degli industriali e delle partite IVA del nordest.
Come sia finito quel nordest oggi, proprio grazie all’ignoranza gretta di quegli industriali e di quelle partite IVA, è cronaca quotidiana: delocalizzazioni effettuate dopo decenni di aiuti statali, vendita a colossi stranieri avvenuta dopo anni di cassa integrazione e ricchissimi pensionati che trascorrono la loro terza età dorata tra ville in campagna e paradisi fiscali.
Il fatto che Rumiz reputi ancora validi certi approcci per spiegare l’ascesa del moderno sovranismo in Europa ci fa comprendere come troppo spesso gli intellettuali nostrani si affidino all’eterna adattabilità dei loro concetti più che allo studio reale dei fenomeni.
Il “cittadino comune che paga le tasse”, ad esempio, eterno protagonista di ogni retorica scadente, non è affatto destinato a diventare razzista e fascista per pura esasperazione istintiva: il contribuente medio europeo da circa trent’anni può essere razzista secondo una logica molto razionale, perchè i partiti razzisti sono gli stessi che gli promettono meno tasse e più privilegi in campagna elettorale.
Che le “percezioni inascoltate” siano una questione di convenienza e di baratto non è ancora contemplato da molti analisti nostrani.
Un argomento altrettanto ricorrente nel libro – ça va sans dire – è l’aggressione russa in Ucraina. Che Rumiz non definisce così, perchè utilizza il più comodo termine “guerra” intendendola silenziosamente come proxy war[4].
Nonostante abbia speso gran parte della sua vita a insegnarci come la “guerra” in Bosnia fosse in verità un’aggressione da parte della Serbia nazionalista[5], Rumiz pare non cogliere le innumerevoli analogie tra i due contesti – non ultimo il fatto che quanti ieri confondevano Milošević con la Jugoslavia socialista, oggi confondono Putin con l’Unione Sovietica o addirittura col comunismo.
Ma al netto delle considerazioni storiche, l’aspetto importante è che sia sempre il divano di casa e lo sguardo a distanza a fare da padroni, per esempio quando il giornalista scrive:
“Abbiamo lasciato che si abbattesse la statua di Puškin a Kiev e che si togliessero gli autori russi dalle antologie scolastiche ucraine. Guai a far sapere che esistono russi buoni. Meglio che la loro voce non sia udita” (pagg. 75-76).
Sull’ipotetica cancel culture ucraina ci sarebbe molto da apprendere, soprattutto se gli opinionisti si degnassero di parlare con i cittadini del sud e dell’est dell’Ucraina – che ancor oggi parlano russo come le loro abitazioni e i loro riferimenti culturali, ma pare che nessuno lo sappia.
Dato che Rumiz all’inizio del libro si dichiara nostalgico dell’Austria felix[6], la domanda più naturale da porre in termini di cancel culture sarebbe: quante statue di poeti austriaci esistono oggi nei territori italiani che furono asburgici? E quanti autori asburgici dei secoli passati sono compresi nelle nostre antologie scolastiche?
Significa forse che consideriamo “gli austriaci” (o peggio ancora “i tedeschi”) come geneticamente cattivi?
Uno dei principali limiti di quanti vogliono porre in risalto le criticità dell’Unione Europea è quello di non riuscire a cogliere il profondo eurocentrismo occidentale della loro visione.
Si finisce quindi col ritenere la storia politica del proprio Paese e i lunghi processi di unificazione o indipendenza come degli unicum peculiari: qualcosa che agli altri popoli non è concesso replicare, nemmeno in forma di autodeterminazione, perchè condannati alla barbarie culturale.
Verranno di notte in conclusione si rivela quindi una Moleskine fitta di suggestioni eterogenee per stile e contenuto. Talune appaiono geniali, profonde e illuminanti – all’altezza del loro autore – altre sembrano sintomo di una stanchezza personale che straripa nel rancore, altre ancora paiono sfidare davvero il senso del ridicolo[7].
Un brano può essere jazz se le disarmonie che percepiamo inizialmente vengono sublimate dallo stile, dal virtuosismo o dall’affiatamento dell’ensemble che lo esegue. Se questi aspetti mancano, probabilmente il risultato sarà cacofonico.
Il fine nobile di Rumiz, come detto all’inizio, è quello di voler dare al lettore/elettore l’idea che il pessimismo della ragione sia ancora inferiore all’ottimismo della volontà.
Per questo al termine della notte, sulle luci dell’alba, l’autore descrive col sincero entusiasmo della speranza le recenti, grandi mobilitazioni svoltesi in Germania e Polonia a difesa della democrazia e dei valori europei.
Dimenticandosi però di sottolineare un aspetto determinante: in quei Paesi il mondo intellettuale dei giornalisti, degli artisti, degli scrittori – lungi dal ritirarsi in un eremo per stendere monologhi a distanza – è in prima linea a sporcarsi le mani.
NOTE
[1] “Di notte i clandestini attraversano la foresta sopra casa mia. Talvolta le loro facce mi compaiono alla finestra come l’icona di una sindone” (p. 50).
[2] Rumiz non lo cita, perchè forse non lo conosce, ma il film “Macondo” del regista Sudabeh Mortesai è un’opera straordinaria per comprendere la condizione reale dei rifugiati ceceni nelle periferie di Vienna. Perciò varrebbe la pena vederlo
[3] Vedi “La secessione leggera” (Editori Riuniti, 1997 ; Feltrinelli 2001)
[4] Curiosa a questo proposito è l’allusione dell’autore a un viaggio compiuto in Ucraina nel 2008.
Rumiz scrive: “Avevamo sentito, in anticipo di quattordici anni, la paura degli ucraini di una guerra fra la Russia e la Nato” (corsivo mio).
Premesso che la guerra in Ucraina è iniziata nel 2014, Rumiz pare dimenticare che proprio nel 2008, in estate, Putin scatenò una brevissima guerra in Georgia, ma che in questa guerra la Nato non c’entrasse per niente. Da allora, però, le truppe russe occupano ancora illegalmente il 20% del territorio georgiano, in spregio a tutte le risoluzioni che ne avevano ordinato il rientro in patria.
[5] Vedi “Maschere per un massacro”. (Editori Riuniti, 1996 ; Feltrinelli 2011)
[6] “Le nazioni hanno sfasciato il mio impero… Non era il migliore dei mondi possibili, ma tutti andavano a scuola e la burocrazia era onesta” (p. 19) ; “Gli andava specialmente di traverso la pretesa dell’Austria-Ungheria di far da cuscinetto tra due mondi, per evitare conflitti” (p. 21)
Basterebbe pochissimo per confutare questi facili luoghi comuni sull’Impero di Francesco Giuseppe. Rileggere “L’uomo senza qualità” di Robert Musil potrebbe essere utile, così come ricordare che il “cuscinetto” pacifista si era annesso la Bosnia nel 1908 strappandola all’Impero Ottomano e partecipava alla pari delle altre nazioni tanto alla corsa agli armamenti quanto al gioco bellico delle alleanze.
[7] L’incontro immaginario tra Biden e Giorgia Meloni, condito di analisi geopolitiche grossolane, inglese maccheronico e toni da commedia del Bagaglino, occupa ben cinque pagine del libro (dalla 155 alla 159) ma è davvero uno dei vertici cringe della saggistica italiana.