Intorno agli anni Novanta, sotto la spinta della contaminazione con il noir, il romanzo d’indagine poliziesca si è evoluto da rebus intellettuale alla Agatha Christie verso una forma letteraria sofisticata, che non promette soltanto una “sfida” tra autore e lettore – a colpi di indizi e depistaggi, pistole di Čechov e aringhe rosse – ma anche indagini sociologiche su un determinato ambiente. In Italia in particolare, ma non solo, gli autori hanno cominciato a giocare su una serie di caratterizzazioni nel quadro di un adattamento generale, all’interno del quale possono giocare con variabili indipendenti dell’indagine: personaggi secondari, passati trascorsi, abitudini al limite dell’ossessione: un modo per fidelizzare il lettore, naturalmente. Nel polar del secolo scorso la cornice aveva sì importanza, ma si limitava a particolari tutto sommato marginali, più per suggerire in modo vago un determinato ambiente che per caratterizzarlo nel dettaglio; per rimanere a Maigret (che il protagonista di questo simpatico romanzo di Paolo Pietrangeli richiama esplicitamente già dal nome anagrammato), abbiamo costanti come la birra e i panini ordinati al bar dei Quai des Orfèvres, il rituale degli appostamenti, la pipa, e pure il rapporto con la moglie.
La cornice d’ambiente è ancora più importante nel caso in cui l’autore, o l’autrice, decide di servirsi di un “detective” che non ha un ruolo istituzionale: né poliziotto né carabiniere né investigatore privato, anzi, il motivo per cui si sceglie un protagonista seriale fuori dai ruoli (per esempio insegnante, medico, barista, avvocato, etc.) è proprio la volontà di raccontare un ambiente. Non sfugge a questa regola Paolo Pietrangeli, che molti conoscono più come regista che come scrittore – e quelli della mia generazione ricordano cantautore impegnato che immediatamente rimanda a quegli anni formidabili. Il suo Giorgio Tremagi, che già abbiamo avuto modo di leggere nel precedente romanzo della serie, La pistola di Garibaldi, è un libraio che ha passato i cinquanta, costretto dalle condizioni di mercato a trasformare parzialmente il suo negozio in piazza Epiro a Roma, per fare spazio a una frequentatissima “polpetteria” dove cucina la cognata Fiorella, e che è l’epicentro della trama, dove tutto sembra accadere come su un palcoscenico.
Tremagi non è uno di quegli investigatori dilettanti che a ogni avventura inciampano in delitti da risolvere: la trama è più nel campo del noir, ma filtrata attraverso un registro in bilico tra umorismo e sarcasmo, l’unico forse adatto a raccontare un ambiente disilluso, dove la Roma popolare si mescola con l’immigrazione di prima e di seconda generazione, in un mix originale in cui conta l’umanità e non l’appartenenza culturale. La vicenda inizia tre settimane dopo il termine del romanzo precedente, quando nella libreria-trattoria di piazza Epiro entra una bella ragazza in cerca del cane smarrito. Proprio nel cane, che ribattezza Gedeone – e che sembra predestinato a una parte anche nei successivi romanzi – si imbatte Tremagi: tramite l’animale verrà trascinato in una vicenda nera di droga e omicidi. A differenza di molti suoi “colleghi” e “colleghe”, sembra che il suo intervento nell’indagine non sia veramente risolutivo agli occhi del lettore: in fondo ne Il rasoio di Occam non c’è un assassino da indovinare, ma si tratta di “un pamphlet di carattere sociologico”, proprio come l’editrice rinfaccia all’aspirante scrittore Spazzoni nella lettera del cap. 28. Il centro di gravità sta nella metamorfosi dei personaggi a contatto con le vicissitudini della vita, o se vogliamo è un’indagine di Tremagi su sé stesso e sull’evoluzione di un certo ambiente sociale che nella solidarietà di un’esistenza marginale trova la forza di resistere alle lusinghe della criminalità.
Il colore dell’ambientazione, punto di forza di questo romanzo, si estende anche allo strumento linguistico – limitatamente al dialogo diretto, però, perché Pietrangeli non sceglie di infiltrare il suo stile con la maschera dialettale che contraddistingue altri autori, primo fra tutti Andrea Camilleri. A proposito di quest’ultimo, citato nel testo, voglio solo aggiungere che la storia contiene una quantità di rimandi colti, letterari o musicali, ma anche cinematografici, il primo dei quali è, naturalmente, richiamato nel titolo.