Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.
Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clemente e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.
Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.
La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.
Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.
La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.
Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.
Persichetti sostiene dunque che:
Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...
Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.
L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.
Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?
Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.
Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.