Il cammino che conduce incontro a se stessi è un viaggio di conoscenza, un esercizio di consapevolezza che richiede lucidità; ma cosa accade se a turbare l’equilibrio necessario per dialogare con la propria intimità irrompe la potenza irriducibile di Dioniso, con il suo irrefrenabile corteggio di baccanti? Il movimento che il dio incoraggia, quell’estasi che consiste in una momentanea fuoriuscita da sé, davvero non ha nulla a che fare con il percorso di riconoscimento dei nodi più profondi della propria anima? Probabilmente, invece, la trasformazione transitoria che il ritmo del ballo scandisce è una via altra per ritrovare la propria autenticità temporaneamente smarrita.
Leggere il recente saggio di Paolo Pecere, Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni, significa acquisire contezza del fatto che la ricerca di sé non debba necessariamente essere un esercizio del pensiero, un’astrazione intangibile, ma che, anzi, si possa trattare di un’esperienza che scuote il corpo, determinandone una metamorfosi che può essere percepita attraverso i sensi. Seguendo il singolare itinerario proposto dall’autore, il lettore si imbatte continuamente in luoghi e storie laterali, percorre la geografia del margine, costeggia funambolicamente la soglia della dimenticanza.
Così dal Salento bruciato dal sole al cuore impenetrabile dell’Africa, dal bosco del sé dell’India meridionale al vento rovente del Pakistan, dal ventre fragile dell’Amazzonia al cosmopolitismo di New York, Pecere intreccia memorie e visioni, dando vita a un testo-tessuto variopinto che è insieme diario, saggio, reportage. Il nume tutelare che sovrintende questo viaggio particolarissimo è Dioniso, il dio straniero che viene dall’Oriente e che, in queste pagine così come nell’esperienza del reale, assume diversi nomi, forme, identità. La sua energia multiforme è una potenza liberatrice che non sa soggiacere alle catene e ai vincoli che l’ordine tenta di imporle. Chi è sfiorato dal suo tocco divino, dunque, non può fare a meno di pronunciare il suo sì alla follia che scioglie e libera.
Con le dovute differenze, il tarantismo salentino, il theyyam indiano, l’estasi dei sufi, il vodu che dall’Africa migra verso il Brasile mediante la tratta degli schiavi, lo sciamanismo dell’Amazzonia sono tutti esempi di possessione da parte di Dioniso, momenti di trance sviluppati “in diverse civiltà per guarire, divinare, poetare, vedere realtà nascoste”. La danza cioè diventa uno strumento per lasciar emergere l’invisibile. In un vero e proprio rituale dal carattere sacro, chi soffre per un amore perduto, per un lutto intollerabile, per una malattia che non sembra possa essere sanata, perde i freni del razionale e nel ballo accorda i battiti del proprio cuore al ritmo forsennato della musica. È interessante sottolineare che il crollo, la crisi, la mania dell’individuo possono essere ricomposti esclusivamente tramite un rito collettivo: l’intera comunità si fa quindi carico del dolore del singolo, e così la dimensione pubblica contribuisce al processo di rinascita. Se infatti l’abbandono dell’io rivela contraddizioni e lacerazioni che affliggono la società intera, questa non può sottrarsi alla ricerca della verità.
Per ogni viaggio, Pecere ripercorre con doviziosa documentazione le origini storiche dei fenomeni, ne rintraccia collegamenti e motivazioni profonde, fino a interrogarsi, nell’epilogo, sulle ‘reliquie’ di queste pratiche nel mondo contemporaneo; persino nell’Occidente desacralizzato e spoetizzante, l’autore riesce a individuare la foresta della resistenza: “la danza continua anche tra i grattacieli dell’isola di Manhattan”. Prova, questa, di quanto sia importante tenere allenato lo sguardo per scorgere tracce di divino anche nei luoghi più impensabili, quelli che ci trasformano e paiono allontanarci dalla radice dell’essenza.