Le vicende narrate nel romanzo di Paolo Nelli sono quelle di un professore italiano, Nello, il quale, come richiama il gioco di nomi, dovrebbe essere una sorta di suo alter-ego. Il protagonista vive a Londra dove insegna la lingua italiana, appartiene alla generazione X ed è un esponente della cosiddetta “middle class”, cioè di un ceto medio che, per esempio, pur non essendo sufficientemente povero da poter accedere a sussidi statali o agevolazioni varie per garantirsi un minor dispendio economico nel pagarsi l’affitto, non è neppure abbastanza benestante da potersi permettere un appartamento più confortevole che in qualche modo si sente di meritare. Altra protagonista che, tra l’altro, scandisce i capitoli del libro – Bici vecchia, Bici nuova, Bici sgonfia, Bici bianca, Bici rubata – è la bicicletta con cui Nello si sposta per la metropoli inglese, per recarsi dai suoi studenti ai quali impartisce lezioni a domicilio e che, appartenenti per lo più alla ricca borghesia, hanno uno stile di vita distantissimo dal suo. Proprio questa immersione in un mondo di un livello socioeconomico con cui mai prima s’era confrontato, lo porta a riflettere sulla sorte che ci è data dall’essere nati in una famiglia o in un posto piuttosto che in un altro, e in generale sull’umanità che incontra e affronta con curiosità. Con un tono confidenziale ma documentato, veniamo quindi a conoscenza di elementi interessanti che ben descrivono la società attuale.
Racconta Nelli di un’esagerata disparità economica nella retribuzione tra dipendenti e capi d’azienda come accade, per esempio, in JD Sports – colosso britannico che vende scarpe da ginnastica – dove le persone ai vertici percepiscono trecentodieci volte lo stipendio di un dipendente semplice; oppure, delle opere di volontariato portate avanti da tanta brava gente che si premura di consegnare un pasto caldo e una coperta agli homeless che la città di Londra ha cercato di relegare ai margini per non deturpare il decoro urbano.
Ci viene raccontato che nonostante qualcuno sostenga che i senzatetto a Londra non esistano, negli ultimi anni, invece, se ne vedono molti in giro, e se li si nota meno che altrove è perché le persone riconoscibili, sporche, maleodoranti, vestite con stracci, che hanno in genere anche una serie di disturbi mentali, sono una minoranza rispetto ai più o meno diecimila che non hanno un posto fisso per dormire e che riescono a mimetizzarsi muovendosi con un semplice zainetto sulle spalle nel quotidiano e affollato andirivieni per le strade della città.
Mi scopro a condividere con l’autore il fastidio che danno i toni di voce alterati delle persone che gracchiano al telefono; l’allergia per una conversazione ordinaria come ne facciamo spesso tutti, per riempire l’incapacità di stare soli; il piacere di captare frammenti di conversazioni altrui su cui fantasticare dando importanza a momenti che sono sì trascurabili ma che, in qualche modo, rimangono attaccati alla nostra memoria e ci fanno compagnia; il rammarico d’aver realizzato che ormai quello che per Orazio era “cogli l’attimo” si è trasformato in un meno poetico “invia l’attimo” (con lo smartphone).
Mi piace l’idea, che fa capolino dalle righe del romanzo, di ribellarci al denaro che modella tutto, anche i corpi di uomini e donne, e quindi decidere di lasciarsi le rughe, il doppio mento, fare acquisti nel piccolo negozio economico del nostro quartiere per contrastare le grandi marche o mantenere in vita la carta stampata comprando durante il fine settimana tutti gli allegati culturali dei quotidiani. Insomma, non fare politica con parole urlate come slogan che rifiutano ogni complessità, ma una politica sana e spicciola con piccoli gesti di solidarietà, di proteste pacate, di sdegno per le ingiustizie e chissà, se tutti si facesse così, saremmo in una situazione di rivoluzione permanente e il mondo sarebbe bellissimo.
Ho trovato molto condivisibile anche la constatazione, magari un po’ amara, di dover prendere atto d’avere un’età nella quale sempre più cose sono senza ritorno; quanto diventi sempre più difficile stare bene negli anni che ci portiamo addosso; quanto ormai ci capiti con sempre maggior frequenza di rispondere che non è più vero il proverbio “meglio tardi che mai” perché, come fa spiegare il regista Paolo Sorrentino a uno splendido Sean Penn nelle parti della rockstar Cheyenne in This must be the place, arriva un momento in cui “quando è tardi è tardi” ed è la storia dell’umanità intera. Soprattutto, ho trovato illuminante l’aneddoto che riporta Nelli su Primo Levi, morto suicida: la biografa dello scrittore deportato nei campi di concentramento, racconta che Levi aveva rivelato d’aver meditato il suicidio in gioventù, prima di Auschwitz, e che lo ha meditato diverse volte anche nel corso della sua vita dopo Auschwitz, ma mai, neppure una volta, ha pensato al suicidio negli undici mesi passati nel campo di concentramento. «Che Primo Levi non abbia pensato al suicidio, nel campo di sterminio di Auschwitz, quando così immerso nella morte, è un’affermazione potentissima, istintivamente chiara».
Per concludere, visto che sinora non s’è detto né di assicurazioni né di sindromi, nella parte finale del romanzo arriva anche la spiegazione del titolo: “Sindrome da assicuratore” è l’idea che il racconto di sé assicura al sé una conferma d’esistenza, ed è condizione che accomuna lo scrittore, il professore, i lettori e tutti gli esseri umani.