Il libro di Paolo Morando raccoglie nuovi elementi sulla strage di Peteano del 31 maggio 1972, di cui si conoscono gli autori – un reo confesso, Vincenzo Vinciguerra e due colpevoli, Carlo Cicuttini e Ivano Boccaccio – ma che non è ancora possibile archiviare, anzi non manca di sollevare inquietanti interrogativi e sembra essere una sintesi degli aspetti oscuri che avvolgono la stagione delle stragi.
Scrive Morando che la tragedia di Peteano rimase per anni in ombra, troppo vicina alla morte del commissario Calabresi, e dunque a piazza Fontana, in un luogo periferico e con un ridotto numero di vittime. Ma è proprio in questa periferia, a est, che c’è una radice della “strategia della tensione”. Qui negli anni della guerra fredda al confine con la Jugoslavia la Nato intervenne contro il pericolo del comunismo, riorganizzando i partigiani dell’Osoppo e tutti coloro che condividevano la stessa paura dell’avanzata della sinistra, in una organizzazione, la cosiddetta stay behind, disponibile ad attività di intelligence, all’addestramento e ad azioni militari. Qui vennero erogati ingenti fondi per la ricostruzione di una società italianissima che dimostrasse la superiorità del modello democratico. Inizialmente gli anticomunisti formarono l’organizzazione “O” che poi confluì in Gladio. La collaborazione di civili e militari sotto il controllo statunitense costituì la rete di coloro che erano disponibili a qualsiasi azione pur di evitare l’avanzata rossa in Italia.
Il 31 maggio 1972 a Peteano fu rinvenuta una 500 imbottita di esplosivo con un foro di proiettile sul parabrezza e due sui finestrini. Lo stesso giorno ci fu la famosa telefonata, dal bar Nazionale di Monfalcone, ai carabinieri della tenenza di Gradisca, a opera di Carlo Cicuttini, esponente di Ordine Nuovo e segretario del MSI di Manzano. Telefonata e personaggi – con Cicuttini c’era anche Vinciguerra – che furono visti e sentiti da Mauro Roitero, che denunciò il fatto agli inquirenti con diverse lettere, senza avere alcun riscontro e che morì misteriosamente nel suo ufficio.
Sul posto, quella notte, arrivarono ben tre pattuglie di carabinieri. Angelo Tagliari, aprendo il cofano della vettura innescò l’ordigno esplosivo che causò tre vittime: i carabinieri Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni e due feriti, lo stesso Tagliari e Giuseppe Zazzaro. Le indagini furono assunte immediatamente dal Comandante della Legione di Udine, colonnello Dino Mingarelli, braccio destro del generale Giovanni De Lorenzo, fautore del primo tentato colpo di stato in Italia, il piano Solo del 1964. Con Mingarelli c’era il colonnello Antonino Chirico, anche lui proveniente da Udine. L’indagine fu, senza apparente motivo, sottratta alle autorità locali titolari dell’indagine, con tale aggressività e determinazione, che esse protestarono con il prefetto di Gorizia Vincenzo Molinari. Ricordiamo che Molinari venne addirittura arrestato nell’inchiesta bis di Casson su Peteano, perché aveva sottratto all’indagine le lettere di Roitero che avrebbero fatto rintracciare i colpevoli.
Mingarelli e Chirico indirizzarono subito le ricerche su “Lotta Continua” di Trento, seguendo un’informativa che Mingarelli aveva ricevuto dal generale Giovanbattista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e iscritto alla P2, che arrivò a Gorizia il giorno successivo alla strage e gli consegnò una velina. Si trattava della presunta informazione che Marco Pisetta – già militante dei GAP di Feltrinelli e delle Brigate Rosse e informatore dei servizi – avrebbe rilasciato al colonnello comandante dei Carabinieri di Trento, Michele Santoro. L’ipotesi di incriminare i militanti di sinistra di Trento è avanzata da Paolo Morando che descrive la città negli anni ’70 attraversata da lotte studentesche e operaie intense e violente.
Il 19 gennaio 1971 si sarebbe dovuto svolgere a Trento un importante processo contro un docente di sociologia e uno studente che avevano partecipato a un corteo degli operai della Ignis, terminato con incidenti che avevano portato a numerosi arresti. Il giorno del processo fu rinvenuto in un’aiuola davanti al tribunale un sacco pieno di esplosivi che avrebbero potuto colpire il presidio di solidarietà. L’udienza fu sospesa e con essa la manifestazione, ma l’esplosivo venne comunque scoperto e fatto brillare da un perito che disse che non aveva mai visto un ordigno con tale potenzialità esplosiva.
Immediatamente a Trento partì una complessa contro-indagine da parte di “Lotta Continua” che culminò nella pubblicazione, il 7 novembre 1972, di un articolo che attribuiva la responsabilità dell’attentato a Sergio Zani e Claudio Widmann, neofascisti e collaboratori dei servizi, denunciando il fatto che polizia, guardia di Finanza e SID conoscevano i responsabili. Secondo Morando la pista rossa di Peteano, del maggio dello stesso anno, aveva lo scopo di mettere sotto accusa i militanti trentini di “Lotta Continua”, prima che i risultati della contro-informazione fossero pubblicati e venissero denunciati i veri colpevoli. Le indagini sulla strage infatti non colpirono solo esponenti di gruppi extra-parlamentari locali, ma nel mirino rimasero i trentini anche dopo l’avvio della cosiddetta pista gialla.
A mettere definitivamente in crisi la pista rossa fu quanto successe il 6 ottobre 1972 quando Ivano Boccaccio, un ordinovista di Udine, cercò di dirottare a Ronchi un aereo Fokker diretto a Bari a scopo di riscatto, per consentire di ottenere una somma, circa 200 milioni, che permettesse a Vinciguerra, Cicuttini, e allo stesso Boccaccio di abbandonare il gruppo Ordine Nuovo e di rifarsi una vita all’estero. Nelle mani di Boccaccio c’era la pistola di Carlo Cicuttini, con i bossoli dello stesso calibro 22 ritrovati accanto alla 500 fatta esplodere a Peteano. Il tentato dirottamento dell’aereo fu un avvenimento spartiacque. La matrice della strage era chiara. A questo punto, come dimostrato dall’indagine di Casson, Mingarelli alterò deliberatamente il verbale scritto dopo il 31 maggio e fece sparire i bossoli. La pista nera non fu perseguita e nel mirino degli inquirenti finirono sei goriziani incastrati senza alcuna colpa.
La svolta definitiva delle indagini su Peteano fu la confessione che Vinciguerra rese a Casson nel 1984. Il reo confesso, dopo la morte di Boccaccio, fu latitante prima in Spagna, aiutato e sostenuto da Stefano Delle Chiaie, militante di “Avanguardia Nazionale”, e poi in America latina. Tornato in Italia nel 1979 fu arrestato per il dirottamento e condannato a undici anni. La confessione avvenne, secondo Vinciguerra, perché nel periodo della sua latitanza si era reso conto di essere aiutato a sua insaputa dai servizi e aveva ricordato un episodio particolare. Nel 1971 Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, collaboratori dei servizi del Viminale, lo avevano incontrato per proporgli di uccidere Mariano Rumor, che non aveva decretato lo stato di emergenza, preludio di un governo autoritario, dopo la strage di Piazza Fontana del 1969. Davanti alle sue perplessità, dato che Rumor aveva una scorta, Maggi e Zorzi lo avevano rassicurato, dicendogli che proprio la scorta avrebbe favorito l’eliminazione dell’esponente democristiano. A quel punto Vinciguerra maturò l’idea che l’estrema destra italiana era stata cooptata nei servizi di sicurezza dello stato in funzione anticomunista e che il neofascismo era semplice strumento dello Stato. Secondo Casson invece Vinciguerra aveva parlato perché nell’inchiesta sia il fratello gemello Gaetano sia la sorella Maria erano stati coinvolti e la sua assunzione di responsabilità li avrebbe scagionati. Per Vinciguerra Peteano voleva essere un attentato che interrompeva gli ambigui legami tra stato e organizzazioni neofasciste, colpendo appartenenti all’Arma, come rappresentanti di uno stato che l’ergastolano considerava nemico.
Nell’intervista che Paolo Morando fece a Vinciguerra al carcere di Opera nel 2021 l’ergastolano pose un quesito molto importante. Perché i carabinieri avevano avuto interesse a indirizzarsi verso i sei goriziani e non avevano lasciato che la strage fosse fatta da ignoti? E qui c’è una decisiva divaricazione interpretativa dei protagonisti della vicenda. Secondo Casson si voleva distrarre l’attenzione dal ritrovamento di un deposito di esplosivo, il cosiddetto NASCO di Aurisina, nella disponibilità di Gladio, che aveva dotato l’associazione segreta di depositi di armi ed esplosivi. Casson riteneva che Vinciguerra fosse un uomo di Gladio. Ma secondo altri inquirenti come Guido Salvini le cose non stavano così. La tesi secondo cui Gladio fosse legata al terrorismo non ebbe mai riscontro e l’esplosivo usato da Vinciguerra non era quello di Aurisina, ma proveniva da un’azienda di Piancavallo da cui era stato rubato e che confermò il furto. Vinciguerra ruppe i rapporti con Casson e parlò, durante il processo, di una struttura parallela ai servizi che dipendeva dall’Alleanza atlantica, inserita in un apparato composto da civili e militari arruolati in base alle loro convinzioni anticomuniste. In sostanza quello che Vinciguerra denunciava non era Gladio, ma un’organizzazione che faceva capo al Ministero dell’Interno. Salvini confermò questa versione dicendo che la ricostruzione di Casson era infondata e sfornita di qualsiasi elemento di prova. Tra i due magistrati iniziò un duro scontro con denunce fatte dalla procura di Venezia e giudizi del CSM, che scagionarono Salvini, ma che impedirono per sei anni al giudice di proseguire le indagini sulla strage di Piazza Fontana.
Salvini e Vinciguerra sostenevano che tra gli anni ’60 e ’70 si era costituita un’organizzazione chiamata “Nuclei per la difesa dello Stato” di cui facevano parte gruppi di ordinovisti e servizi di sicurezza della Nato, dipendenti dal comando FTASE con sede a Verona. A comandare i Nuclei era Federico Umberto D’Amato, responsabile dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno. In sostanza Gladio, secondo la loro interpretazione, venne data in pasto all’opinione pubblica negli anni ’90 da Andreotti e Cossiga per coprire un’altra organizzazione, parte integrante dello Stato. Nella stessa intervista Morando solleva un’altra questione misteriosa, che pone degli interrogativi su Vinciguerra. La 500 imbottita di esplosivo era stata lasciata a Peteano il 26 maggio, ben cinque giorni prima della telefonata. Perché i terroristi non telefonarono subito per rivendicare la loro azione? Perché non immaginarono che qualcuno, magari dei bambini, giocando potessero farla esplodere, vanificando così l’opera di denuncia che l’ergastolano voleva fare? La risposta di Vinciguerra non è stata chiara ed esaustiva e Morando si interroga sulla autenticità complessiva dl suo racconto.
Le complicate vicende del processo, gestite da un pool di avvocati d’eccellenza come i goriziani Battello, Maniacco, Bernot portarono alla piena assoluzione dei sei imputati e alla condanna di Mingarelli e Chirico. Giorgio Almirante uscì dal processo in quanto parlamentare, anche se aveva procurato a Cicuttini oltre 30 mila dollari per un’operazione alle corde vocali che ne avrebbe impedito il riconoscimento come autore della telefonata, ma che il neo fascista non fece. Rimane la domanda su chi fosse il mandante della strage e si si possa parlare ancora di “pezzi deviati” dello Stato o apparati inseriti addirittura al Ministero degli Interni.