La casa delle parole è il terzo romanzo di Paolo Marasca, anconetano del 1967. Laureato in Lettere Moderne a Milano, nei suoi scritti precedenti è stato sempre attento al linguaggio narrativo e lo è ancor di più in questo romanzo che, tra le alte cose, ci parla di come l’oralità sia lo strumento più diretto per comunicare. Oltre alla parola scritta e all’arte, mezzi di espressione che hanno bisogno di elaborazione, come dicevo nella recensione dell’ultimo romanzo di Cusk, La seconda casa, a volte anche i gesti e le espressioni possono essere usati per comunicare. Non a caso in tutti e due i titoli è presente il termine casa.
È quello che accade a Giuseppe, vittima di un ictus, che perde l’uso della parola. Di professione psichiatra, ha intorno a sé diversi amici che non lo lasciano solo – persone che lavorano nel settore sanitario o dell’arte –, e che fanno di tutto per aiutarlo. Il miglioramento sembra non decollare, e il protagonista riesce a esprimersi solo attraverso monosillabi sconnessi e gesti. L’affetto degli amici non gli manca, così come le esortazioni a cercare di riprendersi, ma questo sembra non essere sufficiente a Giuseppe per ripartire. Dopo una visita ai genitori nel paese dove è nato e l’incontro con il vecchio amico d’infanzia Ugo, che adesso gestisce un ristorante, l’uomo decide di trasferirsi nei luoghi della sua fanciullezza: l’amico ha comprato, per questioni sentimentali, un casale in rovina in cui andavano a giocare da bambini e che per impegni di lavoro non è ancora riuscito a ristrutturare. Nonostante l’infermità Giuseppe parte da solo senza avvertire nessuno, e treno dopo treno, fatica dopo fatica arriva a destinazione. È la chiave di volta della sua nuova vita e piano piano, aiutato dall’amico Ugo, si trasferisce nell’edificio organizzandosi giorno dopo giorno per renderlo abitabile. La vita immersa nella natura, il dover lottare per sopravvivere, il ritorno alle esigenze primarie, la scelta della solitudine e la resistenza sono le fondamenta da dove riparte, come se tagliare i ponti con un passato che non può tornare sia l’unico modo per risorgere. E non a caso, vista la dinamica del romanzo, il luogo dove si stabilisce è una zona di transito di immigrati che aiuta ristorandoli e facendoli riposare, all’inizio subendo la loro diffidenza ma diventando, a poco a poco, il luogo e la persona di riferimento per quei disperati. Senza bisogno di parole.
Al di là della trama, che prende spunto da una storia vissuta e che affronta diversi temi attuali come l’amicizia, la mancanza di comunicazione, l’immigrazione, la solidarietà e la malattia come mezzo di rinascita, quello che colpisce, come dicevo all’inizio, è l’uso della forma: la ricerca del linguaggio è chirurgica, così come la scelta delle parole che formano un insieme omogeneo e danno un ritmo musicale alla narrazione. Anche gli spazi tipografici sono usati come pause tra una frase e l’altra, come tempo di elaborazione per chi legge. Nonostante la fluidità del testo Marasca non va incontro al lettore, non ricerca approvazione ma riesce in un esperimento letterario che coniuga forma e contenuto, facce di una stessa medaglia che rappresentano i principi della narrativa contemporanea. E se le parole sono i cardini della nostra società, a volte si può fare di meglio senza.