Pur essendo stata inserita nella prestigiosa collana Gialla Oro – nata alcuni anni fa dalla collaborazione tra la casa editrice lombarda Lietocolle e il festival letterario Pordenonelegge – l’antologia che raccoglie un terzo della produzione poetica finora pubblicata da Paolo Maccari non è soltanto il raggiungimento di un punto fermo nella poesia dell’autore, nato a Colle Val d’Elsa nel 1975. È anche, come recita il titolo, la storia di una sfida con la parola e, su un livello asintotico, con la vita, con le quali Maccari si dimostra pronto, una volta di più, a venire ai Ferri corti.
Le opere dalle quali è tratta la selezione – Ospiti (Manni, 2000), Fuoco amico (Passigli, 2009), Contromosse (Con-fine, 2013) e Fermate (Elliot, 2017) – sembrano essere, infatti, altrettanti momenti di questa sfida, nella quale non sono ammessi facili ripari o consolazioni. Questo non si deve soltanto alla metaforica della guerra dispiegata nei due titoli centrali e nei relativi testi, o alla continua, ma sempre repentina, trasformazione degli “ospiti” del primo, omonimo libro nei possibili attori di un “tradimento” (lessema frequente, nella poesia anche successiva di Maccari). In termini più generali, la sua scrittura sembra essere attraversata da un rigore morale, culturale e politico – altro ritorno frequente è quello del “rimorso”, quasi sempre di caratura più esistenziale che non morale – che non ha timore di guardare in faccia la possibilità del nichilismo; non per caso, in un articolo pubblicato su Doppiozero a inizio anno, Matteo Marchesini ha definito Maccari un “autore dostoevskiano”.
In questo tribunale della coscienza costantemente riprodotto, pare tuttavia esserci la possibilità labile di una qualche via d’uscita, quando, per esempio, la parola poetica evidenzia al suo massimo grado la levità della quale, in Maccari, è sempre possibile, ma talvolta pudicamente sottaciuta. È il caso, ad esempio, de “L’ultima voce”, sezione di Fuoco Amico, con il suo gioco formale sulla struttura strofica del sonetto più tradizionale (due quartine e due terzine), dove versi lapidari come quelli che danno inizio al quinto testo (“Amici il tradimento è una gran cosa. / Qui dentro le vostre voci lo sanno. / La pace degli apostati è sontuosa / se svanisce come deve il malanno // della fede. E la fede, in me è esplosa […]”) e lo chiudono (“[…] Abbiamo riso // delle prime mosse della difesa. / Riso fino alla morte, finché, invasi / nel nostro nido, non ci hanno ucciso.”). Una risata amara, dunque, ma non priva di un certo brio metrico-ritmico come sommesso, e forse ancor più beffardo, controcanto: s’intuisce – l’orecchio lo sente – ancora meglio in occasione del testo finale di Ospiti, quel “Richiamo” che è interamente costruito su versicoli apparentemente neo-crepuscolari, ma anche, ineluttabilmente, ludici (“Di te so meno / sempre di più / tu non sai più / se mi dispero // o son sereno, / in questo meno / che ti divora…”).
La risata diventa definitivamente cupa nelle selezioni operate dagli ultimi due libri, Contromosse e Fermate, nonché negli inediti posti a conclusione della scelta antologica. Se Contromosse presenta un testo come “Niente di me” che è, con ogni probabilità, programmatico, almeno rispetto ai “ferri corti” dell’autore con sé stesso (si veda la strofa conclusiva: “Non avrai niente di me, se non me stesso / in questa stanza affumicata / dove fumo e mi oriento e mi sogno / e scaccio il sonno e ti aspetto / mentre sale il bisogno / del tuo perdono, / del perdono di quanti trassi in inganno / dicendo che credo, che so, che sono”), le Fermate del libro omonimo punteggiano un desolante paesaggio urbano e umano (si veda, a titolo di esempio “Comitiva”, ambientata “nel bar dove vendono la droga”) e, insieme, quella che è una nuova e feroce riproduzione del dramma della coscienza.
In Contromosse, tuttavia, si affaccia anche un elemento decisivo della seconda parte della produzione di Maccari qui antologizzata, ovvero il rapporto con la prosa. Anche qui, Maccari viene ai “ferri corti”: dopo l’iniziale approccio alla prosa poetica di Contromosse nei quali compaiono brevi scene di animali (cigni, volpi e lupi), colti in una loro, piuttosto tradizionale, metaforica, Fermate espande l’orizzonte verso una prosa più marcatamente narrativa, come si può evincere dalla lettura del lungo testo che inizia con la frase: “Era luglio e fu l’unica volta che andai al mare da solo”, a suggellare una scrittura aneddotica, che intenzionalmente non esce dal piano più asciuttamente referenziale per rendere ancora più evidenti e d’impatto le sue, sempre presenti, valenze poetiche.
Negli inediti raccolti sotto il titolo Noi altri, questa tendenza viene confermata, ed è lo stesso autore a tracciare un percorso unitario nella nota finale che chiude l’antologia, parlando di “un dialogo piuttosto fitto tra i due generi, messi accanto per esaltare le rispettive differenze di respiro e di inquadratura. Invece di schivare la narratività, le mie ultime prose mi paiono domandarla in maniera abnorme, quasi fossero appunti preparatori, o impalcature, o rovine, non di racconti ma addirittura di romanzi non scritti”.
Una scrittura auto-critica, come si può leggere qui, che è sempre lucidissima e che viene ribadita con maestria nel paragrafo successivo, nel quale Maccari ridefinisce la questione del “verso libero” basandosi sulle Conversazioni di Iosif Brodskij in poche righe con le quali tutti i cultori – leggenti o scriventi – della poesia sono, dall’uscita del libro in poi, chiamati a confrontarsi. Così come sono chiamati a confrontarsi con l’antologia fin qui decisiva della poesia di Paolo Maccari, che viene ai “ferri corti” – infine, e per nostra fortuna – anche con chi si cimenti nella sua lettura.