Dell’ostilità della natura nei confronti degli esseri umani è questione di cui si è narrato nel corso dei secoli, che si trattasse di una natura più o meno legata al volere degli dei, come nell’antichità, o di quella che attraversa la letteratura romantica o il verismo ottocentesco, per riaffiorare con forza in una contemporaneità segnata della crisi ambientale derivata da secoli di sfruttamento ambientale indiscriminato derivato da un’idea di sviluppo finalizzata al profitto immediato e incurante delle devastazioni procurate.
Proprio all’essere umano alle prese con una natura ostile Paolo Lago ha dedicato il saggio La natura ostile. Visioni e prospettive nella narrativa contemporanea, (Terracqua edizioni, pp. 234, euro 18,00 stampa) che prende in considerazione alcune opere di narrativa contemporanea che, con distorsioni distopiche e apocalittiche, o in modalità non direttamente distopica, affrontano tematiche inerenti l’inquinamento e il cambiamento climatico che caratterizzano l’attualità.
L’autore suddivide il saggio in due parti, pur segnalando punti di contatto e di ibridazione tra esse: una post-apocalittica ed eco-distopica e una non marcatamente distopica. Mentre nella prima parte Lago si concentra su narrazioni ambientate in un futuro, più o meno lontano, in cui il mondo risulta sconvolto da sconvolgimenti climatici, pestilenze e distruzioni, sovente derivate dallo sfruttamento indiscriminato del pianeta ad opera degli esseri umani, nella seconda parte ad essere prese in esame sono invece narrazioni che prospettano una realtà segnata da una natura che, nel rivelarsi “nemica” agli umani, anticipa possibili e probabili catastrofi future.
A sua volta la prima parte si suddivide in due sezioni dedicate a come i cambiamenti climatici abbiano condotto a “terre desolate”, contraddistinte da devastazioni e imbarbarimenti che hanno sconvolto le tradizioni condizioni di vita, e a “terre sommerse”, in cui il mondo, ormai sommerso dalle acque oceaniche, propone scenari alternativi. Anche la seconda parte del libro presenta una suddivisione in due sezioni dedicate, in questo caso, alle modalità con cui la natura ostile si presenta negli “spazi estremi e lontani” e negli “spazi antropizzati” dando luogo a differenti modalità con cui gli esseri umani si rapportano nei confronti della natura.
Le opere inserite nella sezione post-apocalittica ed eco-distopica presentano spesso la struttura narrativa del viaggio, pur prospettando due diverse tipologie di natura ostile: quella delle terre desolate, inaridite o “malate”, ove i protagonisti si trovano a compiere un itinerario pieno di insidie e pericoli, e quella delle terre sommerse, ove i sopravvissuti sono costretti a vagare su imbarcazioni o si ritrovano a vivere in ambienti subacquei. Si tratta di viaggi che, sottolinea Lago, assumono tonalità cupe, ma a differenza delle peregrinazioni picaresche prive di meta, i personaggi che si incontrano in questi racconti “una meta ce l’hanno, reale o sognata, vera o utopistica, un lembo di mondo forse sopravvissuto alla catastrofe dove probabilmente è possibile, pure se a costo di immani sofferenze, ricostruire una nuova vita”.
In Bambini bonsai (2010) di Paolo Zanotti la natura ostile – che si palesa nella devastazione del territorio derivata da un processo di tropicalizzazione e nella necessità per gli esseri umani di doversi rifugiare in uno spazio sperato dal mondo esterno per proteggersi dall’apocalisse – sembra non scalfire il desiderio dei bambini, alle prese con un viaggio dai connotati fiabeschi, di sopravvivere al disastro.
Nel presentare la natura ostile che caratterizza scenari presenti e reali proiettati in un futuro ridotto a una lentezza pre-tecnologica, in cui le piccole comunità di sopravvissuti tendono a chiudersi a riccio isolandosi, nel suo Qualcosa, là fuori (2016) Bruno Arpaia ricorre invece a uno stile a tratti saggistico.
A differenza di quanto accade nelle opere di Zanotti e Arapia, in cui gli spostamenti per la sopravvivenza sono condotti in gruppo, in Pietra nera (2019) di Alessandro Bertante il viaggio è condotto pressoché in solitaria, in un mondo devastato da una “sciagura” che ha compromesso il sistema economico e, successivamente, da una altrettanto indefinita “epidemia” che ha messo in ginocchio l’umanità. In questo romanzo, che riprende stilemi dell’epica, il territorio non ha assunto i consueti tratti dell’inaridimento, bensì quelli di una natura che al progressivo scomparire dell’essere umano ha riconquistato gli spazi che le erano stati sottratti. I due compagni di viaggio adolescenti che durante il cammino si imbattono in testimoni di un mondo scomparso che non hanno potuto conoscere, sembrano farsi portatori di una speranza attraverso la loro “parola suscitatrice”.
In L’anno del diluvio (The Year of the Flood, 2009) di Margaret Atwood è invece tratteggiato un ambiente eco-distopico non palesemente devastato ma, piuttosto, segnato dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, dunque da una catastrofe pandemica, dallo strapotere delle corporation che si concedono esperimenti genetici di ogni sorta e da una rigida distinzione sociale palesata anche da distinti spazi abitativi. L’ambiente descritto dal racconto mostra una presenza sempre più rarefatta di esseri umani, decimati dalla pandemia; le maggiori possibilità di sopravvivenza in uno scenario “artificializzato” dallo sfruttamento e dagli interessi economici appartengono agli esseri altrettanto artificiali che, proprio per tale loro condizione, vivono più facilmente in simbiosi con una natura così trasformata. Lago sottolinea come in questo romanzo il territorio devastato appaia “quasi come uno sfondo metafisico, un palcoscenico lontano e ‘digitalizzato’. Le città, i parchi, i boschi […] sembrano uno scenario virtuale in cui il tempo ha cessato di scorrere, uno spazio solcato da animali strani e colorati, come se fosse stato creato al computer, specchio di un mondo reso sempre più artificiale da una scienza asservita all’economia”. Nel racconto, sottolinea lo studioso, uno spiraglio di salvezza deriva dalla presenza di piccole comunità autosufficienti che, nel loro sperimentare un diverso rapporto con la natura, potrebbero dar luogo a una futura ricostruzione del mondo.
Venendo alle “terre sommerse”, Lago inizia la sua analisi da Sirene (2007) di Laura Pugno, romanzo che descrive un futuro non troppo lontano in cui l’umanità si trova costretta a vivere in siti abitativi sottomarini per sfuggire al “cancro nero” provocato da un sole ormai primo di filtro di ozono. In tale universo abita anche una nuova specie, quella delle sirene, ammassate in grandi allevamenti e destinate alla macellazione, “esseri subumani” che nel dissolvere i confini fra specie differenti si fanno portatrici di una radicale alterità nel rappresentare “una forma di vita più vicina alla natura nonché, trattandosi di una figura mitologica, alla sfera mitica e leggendaria dell’immaginario umano”. Così come in Pietra nera e L’anno del diluvio, anche nell’opera di Pugno la natura tende a riappropriarsi dei suoi spazi a scapito della presenza umana ormai decimata; le “terre sommerse” in Sirene, sottolinea lo studioso, rappresentano però un rifugio e non un pericolo per l’essere umano.
Quando qui sarà tornato il mare (2020), opera che assembla diversi racconti realizzati dal collettivo Moira Dal Sito e che racconta di una bassa ferrarese completamente sommersa, rappresenta un esempio di “resistenza letteraria” all’assuefazione e al senso di impotenza che inibisce l’azione proprio dei nostri giorni. In questo caso le terre sommerse divengono tanto “l’emblema della distruzione” quanto “una nuova spazialità in cui può rinascere la vita e in cui si possono creare forme di organizzazione sociale” svincolate da quelle dinamiche di sfruttamento della natura che hanno causato le catastrofi ambientali. “Cantando la mappa”, scrive Lago, gli autori del collettivo “reincantano i luoghi e il paesaggio, creando delle vere e proprie ‘favole del reincanto’ […] rivestendo l’immaginario eco-distopico di speranza e possibilità di cambiamento”.
Ad essere analizzata dallo studioso in tale sezione è anche Terre sommerse (After the Flood, 2019) di Kassandra Montag, opera che tratteggia uno scenario globale sommerso dai mari in cui le cime delle montagne restano ormai le uniche terre emerse in cui trovano posto insediamenti umani. Anche in questa narrazione i personaggi sono alla ricerca di un territorio utopistico non sommerso dalle acque del mare. Nell’opera di Montag il racconto si svolge su un duplice livello: quello dell’azione presente, collocata in un futuro eco-distopico successivo alla catastrofe, e quello del ricordo di eventi passati che hanno, un passo alla volta, condotto l’umanità al disastro. La natura ostile, seppure declinata in modo diverso, compare in entrambi gli scenari. Come nei romanzi di Arpaia e del collettivo Moira Dal Sito, anche nell’opera di Montag “la cultura appare come una specie di ancora di salvezza cui aggrapparsi nel nuovo mondo devastato”. Lago sottolinea come il mondo ricoperto dai mari in Terre sommerse sembri rappresentare “un percorso di liberazione dalle ‘griglie’ del controllo e del divieto che ‘striavano’ il vecchio mondo, preda del dominio capitalista”.
La seconda parte del saggio, a sua volta divisa in due sezioni – spazi “estremi e lontani” e “spazi antropizzati” –, come detto, è dedicata a narrazioni non marcatamente distopiche in cui la natura ostile tende a rappresentare un semplice scenario narrativo, una sorta di “impedimento” alle attività degli esseri umani.
Le opere che fanno riferimento a spazi estremi e lontani presentano diverse tipologie di relazione tra essere umano e natura. In Eclissi (2016) di Ezio Sinigaglia “la natura estrema dell’isola del Mare del Nord in cui si ambienta la vicenda ingloba il protagonista facendolo precipitare nelle falde del suo passato”. La natura ostile è in questo caso declinata in modo da assumere sia valenze onirico-regressive che una dimensione mitica dalle valenze quasi epiche. Ne Gli oscillanti (2019) di Claudio Morandini “è la stessa natura ‘nemica’ a rendere nemici fra di loro gli esseri umani che vivono nei paesini isolati”, in Io e Mabel (H is for Hawk, 2014) di Helen Macdonald la protagonista io narrante (la scrittrice) entra in contatto con la natura attraverso un astore che si pone come elemento di collegamento tra essere umano e natura, mentre negli spazi isolati ed estremi di Il sussurro del mondo (The Overstory, 2019) di Richard Powers “i personaggi sembrano agire in profonda sinergia con quella stessa natura inospitale”. In tutti questi romanzi, nota Lago, i protagonisti compiono un percorso di avvicinamento alla natura attraverso processi di metamorfosi.
Nel romanzo di Sinigaglia la narrazione contempla un racconto al presente, che vede il protagonista recarsi su un’isola del Mare del Nord per assistere a un’eclissi, e uno in analessi, relativo alla tromba d’aria che ha seminato la distruzione e la morte sull’isola, oltre che ai ricordi triestini del personaggio principale. In Eclissi è il basalto onnipresente sull’isola a farsi simbolo dell’ostilità della natura nei confronti degli esseri umani, tanto da plasmare persino il carattere e la fisicità degli abitanti e dello stesso protagonista. La natura ostile nel racconto al passato, con riferimento allo sconvolgimento portato dalla tromba d’aria, scrive Lago, emerge dal racconto attraverso un linguaggio italo-inglese che conferisce al catastrofico fenomeno meteorologico connotazioni quasi mitiche. Se il basalto “rappresenta l’ostilità e la durezza di questo spazio estremo e lontano”, l’erba si presta invece a dare immagine al persistere di bellezza e dolcezza in una natura “nemica”.
La natura ostile ne Gli oscillanti assume invece i tratti del paesaggio quasi impercorribile, costretto tra versanti impervi e cupi, assumendo “la valenza di un limite da superare e nel contempo una barriera che racchiude al suo interno qualcosa di inesplicabile e misterioso, di mostruoso e di grottesco” mentre, all’arrivo della protagonista nel paesino dell’infanzia, che assume un carattere onirico e regressivo, emerge uno scenario artificioso. La natura ostile in questo romanzo finisce per assumere tratti soprannaturali a causa della presenza di esseri misteriosi che scaturiscono dalla natura stessa.
In Io e Mabel, come anticipato, l’astore che accompagna la protagonista assume “connotazioni mostruose e terribili”, sembrando provenire da “territori inesplorati e lontani, sconosciuti alla natura umana” e appare come “elemento di alterità e di contagio”. È attraverso di esso, scrive Lago, che “Macdonald riflette sul concetto di alterità e di possibile ibridazione nella dimensione sociale contemporanea”. “Io e Mabel, in qualità di romanzo dell’Antropocene, mette in crisi lo stesso meccanismo identitario dell’autrice che si rapporta alla natura ‘estrema’ in cui avvengono le vicende della storia”. A contatto con la natura ostile e selvaggia la protagonista/scrittrice sembra subire un vero e proprio processo di metamorfosi che le consente di intraprendere una “linea di fuga” positiva.
Il tema della metamorfosi in relazione alla natura ostile torna anche nel romanzo Il sussurro del mondo di Powers, opera “che attraversa i secoli intrecciando le vicende umane a quelle degli alberi”. Pur dipanandosi attorno alle vicende di diversi personaggi alle prese con lotte ambientaliste, la narrazione è incentrata su una botanica ribelle, abituata sin da bambina a vivere a stretto contatto con la natura. Se nei precedenti romanzi analizzati i personaggi necessitavano di un tramite per entrare in sinergia con la natura ostile estrema e selvaggia, quelli che si incontrano nell’opera di Powers “sembrano già predisposti a una sinergia con gli aspetti più ‘ostili’ degli ambienti naturali”.
Nell’ultima sezione del saggio, dedicata agli spazi antropizzati, Lago prende in esame Violazione (2012) di Alessandra Sarchi e torna su alcuni aspetti presenti nelle opere di Macdonald e Powers precedentemente analizzate. Mentre negli spazi estremi e lontani emergeva una certa sinergia fra esseri umani e spazi naturali, la natura ostile sottoposta all’antropizzazione si mostra come un elemento del tutto estraneo alla dimensione umana. Ed è proprio in tale estraneità che, secondo Lago, risiede l’ostilità.
La natura in Violazione è degradata al rango di merce di cui gli esseri umani intendono semplicemente “entrare in possesso”. Lo spazio naturale della campagna diviene allora un territorio che necessita di essere “civilizzato”, “umanizzato”. “La natura è perciò sentita veramente come qualcosa di ostile, di ‘infestante’ contro cui si deve muovere una vera e propria guerra”. Riprendendo categorie introdotte da Deleuze e Guattari, scrive Lago che “lo spazio ‘liscio’ e nomadico della natura viene reso ‘striato’, simile alla città, trasformato in una sorta di finta campagna ad uso e consumo dei cittadini annoiati”. Se i personaggi che popolano il romanzo si muovono spinti da una volontà di possesso degli spazi naturali, a sottrarsi a tale logica è un giovane straniero che, forse proprio in quanto tale, pare farsi “portatore di un’alterità che appare più vicina all’ambiente e alla natura”. Il giovane si rifiuterà infatti di obbedire al datore di lavoro che intende fargli abbattere querce centenarie. Nel romanzo si esplicita come l’ostilità nei confronti della natura, pur palesandosi in questa volontà di distruzione che prende di mira gli alberi, è in realtà di lungo corso e può essere fatta risalire agli anni che seguono il “boom economico”. È invece attraverso la televisione che fanno capolino in Violazione anche accenti distopici e apocalittici.
La natura antropizzata, irregimentata in griglie nei pressi dei centri urbani la si ritrova anche in Io e Mabel, soprattutto quando, in apertura di romanzo, l’autrice descrive una campagna suddivisa in lotti recintati e, ancora, nel momento in cui un essere ferino e selvatico come l’astore palesa di non sopportare l’ambiente del parco cittadino in cui la natura appare eccessivamente antropizzata.
Come in Violazione, anche la natura che si trova negli spazi antropizzati de Il sussurro del mondo di Powers “è sottoposta a una vera e propria ‘violazione’, a una rapida distruzione e sostituzione in funzione della mera utilità cittadina”.
In conclusione, La natura ostile di Paolo Lago offre un’interessante panoramica di come alcune opere di narrativa contemporanea si siano confrontate con la tematica dell’essere umano alle prese con una natura ostile. Alla luce di quanto evidenziato dal saggio, si potrebbe dire che in molte delle opere analizzate emerge chiaramente come l’ostilità della natura nei confronti degli esseri umani derivi spesso dalla precedente ostilità mossa da questi ultimi nei confronti di un ambiente naturale vissuto meramente come ambito da cui ricavare un miope profitto. Nel palesare costantemente ciò, Lago dimostra di non volersi limitare a un’analisi critico-letteraria, quanto piuttosto, attraverso questa, “affinare la consapevolezza” di chi legge circa l’urgenza di fare i conti con una devastazione ambientale che ha precise responsabilità. Senza affrontare queste ultime, suggerisce lo studioso, la catastrofe diviene, nei fatti, inevitabile.