Paolo Di Orazio / Un’oscurità censurata (ma era il 1989)

Paolo Di Orazio, Nuovi delitti, D Editore, pp. 190, euro 17,90 stampa

Come sottogenere letterario lo splatterpunk va considerato tenendo presente che il termine, coniato dallo scrittore horror americano David J. Schow come copia speculare del cugino fantascientifico cyberpunk, ha due polarità e non una. Come parola “valigia” il tempo ha posto molta enfasi allo splatter e troppo poca al punk. Più che alle pareti affrescate da viscere del body horror, alle crudeltà grandguignolesche del cinema gore, lo splatterpunk si lega infatti al clima sospeso e alla ripresa di motivi embrionalmente trasformativi dei tardi anni ’80. In Italia, Paese cinico e bigotto che si apprestava ad uscire dal tunnel della Guerra Fredda per approdare alle mai smentite spoglie della Seconda Repubblica, il fumetto, assai più dei film di Fulci o dei romanzi di Clive Barker fece da apripista alla massa dei nuovi lettori. All’ombra ecumenica del bonelliano Dylan Dog, tra le riviste di nicchia “Splatter” (1989-91), edita dalla Acme, sotto l’ala di Francesco Coniglio, Silver (Guido Silvestri) e Alfredo Castelli, è una punta di diamante per il genere che lancia il giovane Paolo Di Orazio come sceneggiatore e autore. Il suo nome e la sua voce balzano alle cronache grazie a Primi Delitti, una raccolta di racconti neri – distribuita in edicola, nel cellophane della rivista – dove altrettanti piccoli mostri si raccontano come protagonisti di grotteschi omicidi minorili. I bambini dello splatterpunk italiano non sono infatti posseduti da qualche bizzarra entità extraterrestre o soprannaturale, sono piccoli umani efferati che reagiscono in modo cruento e ingegnoso a un trauma subito, vendicandosi di genitori, fratelli, nonne, babysitter, parenti ecc. In altri termini di quella istituzione ariosa come una camera a gas che è la famiglia nucleare e berluscoide degli anni ’80.

La meccanica degli eventi, raccontata da Di Orazio in prima persona, con frasi staccate, uno stile secco e – non solo eufemisticamente – senza fronzoli, riflette l’adattamento raccapricciante ma a loro modo lucido di nuove ed emergenti patologie infantili alla normalità psichica di una società che “non sta bene”. Nel 1989 tanto basta perché si scateni il putiferio mediatico, a mezzo stampa, culminato in una interpellanza parlamentare di Silvia Costa, la democristiana (di sinistra) che piace, appoggiata da tutti i partiti dell’arco costituzionale e non, radicali compresi. Pietra miliare nella letteratura italiana di genere, Primi delitti, è stato da allora ristampato da Castelvecchi (1997), con l’aggiunta di una decima e ultima short storie, da Independent Legion Publishing (2019), per l’edizione del trentennale, e più recentemente da D Editore con cui Di Orazio, a distanza di 35 anni, pubblica ora anche questo sequel, concepito come secondo volume di una trilogia, nell’arco di più ampia macrostoria.

Nuovi delitti presenta gli stessi ex “piccoli mostri”, ormai millennials alla boa dei quaranta e oltre, criminali e serial killer adulti, assestati nel tessuto di un’Italia irriconoscibile, più condiscendente ma in fondo non troppo mutata, se volgiamo lo sguardo alle profondità meno confessabili della sua struttura psichica e alla qualità dei compromessi collettivi. Nessuno di loro è semplicemente “vittima” o “carnefice” quanto piuttosto marionetta che si improvvisa e si ingegna (con buoni risultati) nei panni di infernale burattinaio.  Singolarmente, ciascuno di loro ha trovato la sua strada, razionalizzando, serializzando o industrializzando il “delitto zero” che li ha definiti nella prima raccolta. Di questo episodio alcuni conservano solo un confuso ricordo infantile, per altri si tratta anche consciamente di un marchio incancellabile che li porta a rivivere indefinitamente il trauma in ogni istante della propria esistenza.

Gesti di un macabro rituale che, a seconda del profilo patologico e delle fortune sociali maturate nel frattempo dagli interessati – si va dall’operatore di una RSA all’ex suora scomunicata al talentuoso super ricco Big Tech – vengono descritti come impulso irrefrenabile, messa in scena identitaria o pianificazione para-aziendale. Per rendere anche più esplicito il confronto con il passato, la nuova raccolta ha mantenuto invariati i vecchi titoli dei racconti originali. Rispetto alla versione 1.0, l’incedere crudo ed essenziale dell’autore – tornato da una decina d’anni all’agone letterario dopo una carriera musicale come batterista – si è arricchito strada facendo di nuove e sanguinose sfumature di dark con un gusto testuale sempre più spiccato e sardonico per un humor nerissimo. È il classico rivisitato di un maestro del genere destinato, senza troppi calcoli di marketing, a soddisfare vecchi fan e nuovi lettori.