Nel 1795 Kant pubblicò il saggio “Per la pace perpetua”. Era scritto in uno stile ironico, atipico per Kant e, in generale, per i trattati filosofici seri della sua epoca. Inquadrato come un documento giuridico, imitava un accordo internazionale tra tutti gli Stati – un trattato di pace, in altre parole, ma non di quelli tradizionali. Non si trattava di uno di quegli accordi per la cessazione della guerra aperta che gli Stati belligeranti di solito firmano dopo un conflitto o tra una guerra e l’altra.
Le riflessioni di Kant sulle condizioni di possibilità della pace perpetua sono ben lontane da speculazioni astratte. Esse si riferiscono a un particolare contesto storico, ossia al periodo delle cosiddette guerre rivoluzionarie francesi del 1792-1802. Kant scrisse il suo trattato nello stesso anno in cui Francia e Prussia firmarono la Pace di Basilea. La firma di questo trattato avvenne dopo il crollo della coalizione antifrancese che aveva coinvolto la monarchia prussiana e alcune altre nazioni europee.
La precarietà di tali accordi e la pervasiva instabilità della vita di guerra costituiscono lo sfondo politico del saggio di Kant, che non si poneva l’obiettivo di un cessate il fuoco ma una soluzione più radicale. Kant propone un progetto radicale di abolizione della guerra in quanto tale, di passi collettivi verso una comunità internazionale totalmente diversa, che porta il nome di “pace perpetua”.
L’ironia è già presente nel titolo stesso del saggio. Kant lo rivela nelle righe iniziali, quando scrive che il saggio non è altro che una “iscrizione satirica sull’insegna di un certo oste olandese che raffigura un cimitero”. Eppure, dal punto di vista di Kant, è possibile una forma differente di pace perpetua, diversa da quella del cimitero, un luogo dove tutti riposano in pace dopo aver vissuto in mezzo a una guerra perpetua. Infatti, qual è lo stato dell’umanità – che firma solo trattati di pace temporanei – se non la guerra perpetua? Sì, le nazioni garantiscono la sicurezza ai loro cittadini e cercano di evitare le guerre interne. Ma le nazioni stesse sono costantemente impegnate in guerre tra loro. Cosa potrebbe porre fine a questa reciproca distruttività?
Dal punto di vista di Kant, la guerra non può essere semplicemente proibita. Dobbiamo piuttosto creare condizioni mondiali che rendano impossibile la guerra. Deve esserci un coordinamento globale basato su alcuni principi. Il primo è il repubblicanesimo (in opposizione al dispotismo): in uno stato di pace perpetua tra le repubbliche, tutte le decisioni politiche sono prese dai rappresentanti del popolo, nell’interesse comune e per il bene comune. Il secondo principio è il federalismo: invece di fondersi in un unico Stato universale, le nazioni conservano la loro sovranità e si sviluppano gradualmente in una federazione globale.
Il terzo principio è quello che trovo più interessante e caratteristico di Kant: il cosmopolitismo. La libertà di movimento e l’ospitalità, scrive Kant, sono assolutamente necessarie per raggiungere una coesistenza pacifica tra i diversi paesi. Le persone dovrebbero essere cittadine non solo dei loro rispettivi Stati, ma del mondo a cui tutte appartengono.
In russo esiste una sola parola per indicare sia la “pace” che il “mondo”: “mir”. Un famoso slogan russo, fondamentale per l’ideologia dello Stato sovietico dopo la Seconda guerra mondiale, recita “Miru-mir”, ovvero “Pace al mondo”. È proprio questo il significato del cosmopolitismo kantiano come principio politico: “Pace al mondo”. In altre parole non può esistere una pace duratura in un singolo Paese isolato. La pace è perpetua solo quando esiste in tutto il mondo. “Mondo” e “pace” devono essere sinonimi.
Nel febbraio 2022, all’inizio dell’invasione militare russa dell’Ucraina, in una città della Russia si è verificato un episodio minore ma emblematico: il vecchio slogan sovietico “Miru-mir”, scritto tre decenni prima sul muro di un edificio, è stato ridipinto dai servizi pubblici. Dall’inizio della guerra, molte persone in Russia sono state arrestate per aver usato pubblicamente “mir” come slogan per la “pace” – una repressione che annulla qualsiasi tipo di cosmopolitismo. In risposta all’invasione russa la maggior parte dei Paesi europei ha chiuso le frontiere ai viaggiatori russi. Rifiutare l’ospitalità, chiudere le frontiere, costruire muri per tenere fuori migranti e rifugiati: stiamo andando nella direzione sbagliata.
La guerra di Putin, a quanto pare, ha aperto un vaso di Pandora di ostilità e militarismo, con la violenza e la distruzione che ora si diffondono da un Paese e una regione all’altra. Ma questa non è l’unica guerra che ha rovinato il progetto kantiano di pace perpetua. Tra la speranzosa impresa di Kant e la nostra oscura situazione storica ci sono state molte distruzioni e violenze, tra cui due guerre mondiali. Una terza potrebbe essere in procinto di verificarsi se gli Stati continueranno a seguire le crescenti tendenze anti-cosmopolite.
Fin dall’inizio Kant ha ammesso che la soluzione da lui proposta non era molto realistica. Ma anche se lo stato di pace perpetua non è realizzabile, sosteneva, può esistere come ideale regolativo, come orizzonte verso cui l’umanità può tendere e impegnarsi. Sembra che ci stiamo rapidamente allontanando da questo ideale. Perché?
La risposta più ovvia è che le condizioni politiche del diritto internazionale delineate da Kant non sono state soddisfatte. Dopo la Rivoluzione francese non tutti gli Stati sono diventati repubbliche. Un gran numero di persone vive ancora sotto regimi dispotici e, come abbiamo imparato dalla storia, i regimi dispotici scatenano guerre.
Anche il progetto del federalismo è finora fallito: invece di una federazione universale di nazioni sovrane e indipendenti, abbiamo alleanze rivali di Stati, che perpetuano il vecchio modello imperialista. Un impero non è una federazione. Al contrario negli imperi le singole nazioni perdono la loro identità e libertà a vantaggio di un insieme più grande: più terra, più risorse, più mercati.
La politica di decolonizzazione si oppone a questi sviluppi imperialisti. Tuttavia nel discorso della decolonizzazione c’è la tendenza a intendere il movimento decoloniale come un’uscita dall’impero e un ritorno ai vecchi Stati nazionali – reinvenzione dell’etnia, modalità arcaiche di società patriarcale e così via. Ma dobbiamo fare passi avanti, non indietro. A questo proposito l’idea di Kant di una vera federazione di tutti gli Stati che riconosca i loro interessi comuni sembra più decoloniale.
Perché non possiamo raggiungere l’ideale di Kant? Perché ci sono alcune cose che mancano nella prospettiva di Kant: per esempio la disuguaglianza globale, l’ingiustizia climatica e di genere, le economie capitalistiche estrattive che distruggono il pianeta. Tuttavia il problema principale del suo progetto, a mio avviso, non è politico o sociale, ma piuttosto filosofico.
Kant crede nell’autonomia della ragione. Secondo lui un vero cosmopolita è una persona che sa davvero pensare con la propria testa, che ha imparato a usare la propria ragione. Queste persone possono essere definite cosmopolite non solo perché viaggiano liberamente, ma perché le loro menti sono liberate dai loro contesti particolari. Possono provenire da qualsiasi Paese, nazione, genere o classe, ma quando pensano lo fanno come esseri umani. E queste persone possono anche comprendersi a vicenda; si lasciano convincere da argomentazioni giuste, stipulano accordi seri e seguono certi schemi universali. Possono riunirsi e decidere ciò che è meglio per tutti loro e poi agire insieme in base a questa decisione.
Ma pensiamo davvero con la nostra testa? Esiste una “ragione propria”? Da una prospettiva storica di lungo periodo, la risposta sembra essere negativa. Almeno questo è ciò che impariamo dalle recenti esperienze politiche: come esseri collettivi non pensiamo davvero con la nostra testa. Ognuno di noi effettivamente pensa qualcosa, ma il risultato complessivo di questi pensieri assomiglia più a un delirio collettivo.
È stato Sigmund Freud a sostenere, nel XX secolo, che dietro la ragione c’è qualcos’altro, qualcosa che non possiamo controllare: i nostri istinti, le nostre pulsioni e i nostri desideri. Lo chiamò “inconscio”. Una caratteristica fondamentale dell’inconscio è quella che Freud chiamava “pulsione di morte”. È questa pulsione che, secondo la sua teoria, spiega il fenomeno della guerra e risponde alla domanda sul perché, dopo tanti secoli di progresso, ci impegniamo ancora in arcaiche distruzioni reciproche. Ecco cosa scriveva Freud in una lettera ad Albert Einstein nel 1933, rispondendo alla domanda “Perché la guerra?”.
La pulsione di morte non è un desiderio di morire, né una fantasia suicida, almeno non necessariamente. È il desiderio di fare passi indietro, di rallentare, di tornare al grembo materno. Lo chiamò anche “principio del nirvana”, cioè il desiderio di riposare. Questo principio illumina la battuta di Kant sulla pace perpetua del cimitero: sì, in un certo senso, possiamo pensare a una spinta inconscia a riposare in pace. È un istinto conservatore che partecipa attivamente alle nostre scelte comportamentali ma può anche assumere la forma dell’aggressione. Invece di distruggere noi stessi cerchiamo di distruggere gli altri: questa è una spiegazione per gli scoppi di violenza collettiva come le guerre. La ragione sembra essere assente nel teatro di guerra (Kriegstheater), dove gli stessi orribili scenari si ripetono continuamente su nuovi palcoscenici storici con nuovi attori. È un circolo vizioso.
La buona notizia, tuttavia, è che ci sono molte cose che non possono essere ridotte allo schematismo della ragione. Forse la vera pace può venire solo da un luogo totalmente diverso dagli uffici governativi dove uomini di Stato, uomini d’affari e rappresentanti di partiti politici negoziano politiche e affari internazionali. Ci sono elementi della vita che rimangono distinti dalla geopolitica tradizionale e dalla sua visione del mondo, che si accorge solamente degli Stati o delle alleanze e i loro governanti, uomini seri al potere che si suppone sappiano regnare su tutti noi.
Questi elementi della vita portano sempre e già in sé i semi della pace perpetua. Penso ai disertori che fuggono dalla guerra – uomini che rifiutano di svolgere il loro ruolo di genere, secondo il quale le loro nazioni li hanno condannati a uccidere e a morire. Fuggono dalla guerra verso la pace perpetua.
Penso ai civili, alle persone le cui città e case sono bombardate, assediate, occupate. Persone che continuano a vivere in questi luoghi devastati dalla guerra perché lì hanno qualcosa di cui prendersi cura: i loro giardini, le loro case, i loro animali. In russo esiste un termine interessante per indicare i civili, che letteralmente si traduce con “coloro che vivono in pace”. Il paradosso è che questo termine si applica solo a coloro che vivono dove c’è la guerra. Vivono in pace contro i soldati che vengono nella loro terra per uccidere e morire: vita contro morte. A volte non c’è motivo di restare. Ma al di là della ragione c’è una dignità che porta a resistere, che manifesta la pratica della pace in mezzo alla guerra.
Penso ai rifugiati, a coloro che non hanno più un posto dove vivere, le cui case sono state bombardate, che devono fuggire perché la loro vita è in pericolo. I rifugiati prendono tutto ciò che possono portare con sé – pochi effetti personali, un gatto nel trasportino, un cane al guinzaglio, cose davvero care – e lasciano le loro case. Vanno alla ricerca di un confine aperto, di persone che li accolgano e permettano loro di costruirsi una nuova casa in un nuovo Paese. È questa la dignità del rifugiato: preservare la vita della propria nazione che, attraverso questa dolorosa esperienza di spostamento, diventa cosmopolita.
Miei parenti vivono da un anno in un campo profughi all’aeroporto di Tegel a Berlino, in una grande tenda. Sono una coppia di pensionati provenienti da un villaggio ucraino dove hanno lasciato la loro casa e il loro giardino di lamponi. Stanno imparando il tedesco e guardano al futuro con ottimismo: è difficile iniziare una nuova vita, ma è possibile. I rifugiati sono i nuovi cosmopoliti: quello che portano al mondo è la pace, che hanno recuperato dalla guerra.
(Traduzione: Piero Maestri)