Ho avuto più di un dubbio durante la lettura di questo libro e ancora più dubbi ne ho ora al momento di mettere su carta le mie impressioni su questa opera.
Ma andiamo con ordine: Ottessa Moshfegh è un enfant prodige della letteratura americana contemporanea, nata nel 1981 a Boston da padre iraniano e madre croata, insegnante di lettere presso istituti superiori prima di aprire un bar a Wuhan in Cina. Torna a New York e intreccia diverse conoscenze nell’ambito letterario della Grande Mela, prima di dirigersi alla Brown University per tornare a studiare. Ha pubblicato diversi racconti presso le più importanti riviste letterarie statunitensi prima di pubblicare tre romanzi e una raccolta di racconti. In Italia Moshfegh è apparsa in Mondadori con il romanzo Eileen (2017) e in Feltrinelli con la raccolta di racconti Nostalgia di un altro mondo (2018) e i romanzi Il mio anno di riposo e oblio (2019) e questo La morte in mano (2020).
Premetto, ho avuto modo di conoscere l’autrice con il precedente romanzo, un’opera in cui emerge una certa insofferenza per la vita occidentale in senso lato, la costante rincorsa verso l’essere accettati e verso l’adesione a modelli preimpostati considerati vincenti. La morte in mano si configura come una sorta di poliziesco dove le investigazioni sono compito di Vesta, una vedova settantaduenne con una nuova residenza in un posto sconosciuto in compagnia di un cane, Charlie, e del ricordo del marito, Walter.
Un giorno, girovagando per i boschi intorno alla casa in cui abita, la signora trova un bigliettino in cui si svelano i dettagli di un omicidio, l’omicidio di una certa Magda, il tutto avvolto nella fumosità più completa. La signora inizia a impegolarsi in vari tentativi di immaginare Magda, la sua vita, le sue conoscenze, il suo destino e il suo omicida, scavando sempre più a fondo in ciò che reale non è, in quanto pura invenzione nella mente di una donna sola e solitaria. I confronti con Vesta, la narratrice, sono baluginanti lampi di realtà e la signora ne rimane scossa tanto da confondere realtà e finzione.
Si potrebbe sottolineare come l’opera vada a scandagliare la Scrittura come modalità di contatto con il mondo, di come la finzione sia la realtà di qualcun altro e la realtà dell’uno sia la finzione di chi legge: i temi sono tanti, e sarebbero ancora di più se questo libro avesse un senso, per quanto metaforico.
Leggendo le quasi duecento pagine si intravede invece l’assoluta incapacità dell’autrice di dare un proprio parere al sottotesto del libro: la lentezza, l’apatia, la noia, le ossessive ripetizioni dei medesimi concetti rallentano a dismisura il libro, dando l’impressione che un drastico taglio di pagine avrebbe giovato. L’irritazione all’ennesimo riferimento, peraltro senza traccia di emozione, al marito morto cresce costantemente, così come le frasi dedicate al povero cane Charlie, unico compagno della vedova per l’intera durata del libro e che, con sadismo, si rende protagonista di una scena tanto inutile quanto insensata.
I personaggi che compaiono sono rarefatti non tanto per dare una opacità allo sguardo del lettore, quanto per la scarsa sensibilità dimostrata nei dialoghi, nelle descrizioni, nelle azioni. Se da una parte l’antico detto “show, don’t tell” è ribaltato (vedasi i continui riferimenti sterili al povero morto Walter), quando la strada sembra mettersi sui binari giusti e arrivano personaggi interessanti, la scrittrice li stronca con riferimenti macchiettistici, di una banalità sconcertante.