Oskar Bätschmann / Mostre: il gusto perduto?

Oskar Bätschmann, Il pubblico dell’arte. Una breve storia, tr. di Ester Borgese, Johan & Levi editore, euro 26,00 stampa

Chi guarda l’arte? A chi interessa? Chi può parlare di arte? A queste domande, concentrandosi sull’età moderna pre-contemporanea ed europea, prova a rispondere lo storico dell’arte Oskar Bätschmann: con prudenza, senza inoltrarsi in interpretazioni di storia culturale e sociale ma raccogliendo molti materiali, iconografici e scritti, che se rischiano di comporre una semplice histoire anecdotique – come riporta l’autore stesso nel prologo – costituiscono una base utile per definire il problema. Senza pubblico l’arte moderna (e in generale il teatro il cinema la letteratura) non ha ragione di essere. Eppure la storia del pubblico dell’arte, ancora tutta da scrivere, è oscurata dallo snobismo, dalla tendenza a immaginare due pubblici: uno competente, di nicchia, d’essai e uno popolare (la “gente comune”) dunque istintivo facilone e privo di gusto.

Nella storia più antica forse non era così: il pittore Apelle esponeva i suoi dipinti per strada e poi si nascondeva nei pressi, per origliare i commenti dei passanti che considerava molto utili. Anche Leonardo da Vinci era attento alle osservazioni del pubblico: nel 1502 aprì per due giorni il suo studio a Firenze invitando gli abitanti a vedere un modello preparatorio per La Vergine e il Bambino con sant’Anna e san Giovannino. E, prima di lui, Leon Battista Alberti nel suo trattato sull’arte del dipingere aveva invitato gli artisti a chiedere ad amici e conoscenti un parere sulle opere alle quali stavano lavorando.

È a partire dal XVIII secolo, con la graduale apertura al pubblico di alcune collezioni private, che si diffonde l’idea che è una élite colta a poter dibattere di arte, mentre il popolo, il pubblico allargato considerato collettivamente, non ha una reale e valida opinione. Il primo pubblico dell’arte era composto da pochi intenditori, come quelli che potevano permettersi il Grand Tour accompagnati da lettere di presentazione che aprivano loro le porte di palazzi e collezioni generalmente privati. È per loro, seguiti da antiquari, artisti, collezionisti che puntavano anche a vendere opere, che furono scritte le prime guide turistiche.

Il pubblico come massa emerge solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con la nascita dei musei e con le Esposizioni Universali che registrarono un numero di visitatori altissimo, un fenomeno correlato con l’aumento della popolazione specie nelle grandi città: agli stessi anni risalgono le prime rappresentazioni di folle nell’arte. La diffusione di una stampa di maggiore qualità, di libri d’arte illustrati, di manifesti pubblicitari artistici, contribuiscono dalla fine del XIX secolo a una educazione di massa alle forme estetiche (mediata però, nel caso dei manifesti, dalla rappresentazione di beni di consumo) e all’espansione del pubblico che poi, in anni più recenti, è diventato un soggetto a pieno titolo anche della performance artistica. Il fotografo tedesco Thomas Struth, negli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, con la sua serie Museum Photographs ha eseguito ritratti fotografici del pubblico in molti celebri musei internazionali. Fotografie che mostrano un insieme di individualità piuttosto che un gruppo indistinto e pongono dubbi sull’interpretazione del pubblico come collettività indifferenziata.

Il rapporto tra artista e committente è stato molto più considerato, nella storia degli studi, di quello tra artista e pubblico, anche perché per lungo tempo il committente ha coinciso con il pubblico. Un grande spauracchio di quella élite colta, nostalgica dell’art pour l’art e che si autorappresenta come il pubblico competente, è che l’arte e gli artisti possano mutare per venire incontro ai desideri del pubblico. Eppure l’utopia di un’arte purista non contaminata dall’esterno è già spezzata dal semplice sguardo sull’opera. Guardare un’opera d’arte non è un’azione puramente contemplativa e unidirezionale. Bätschmann si chiede se ai visitatori di una sala di museo accada qualcosa di paragonabile agli spettatori di un teatro o di un concerto. La reazione alla vista dell’opera d’arte è individuale o si verifica una sorta di transfer da un partecipante all’altro? Il pubblico è attivo? Pensieri che iniziano a formarsi già in età illuminista (in particolare con la teoria del pubblico “fecondo” di Gotthold Ephraim Lessing), mentre Winckelmann sembra invece ipotizzare sempre un singolo spettatore, come è evidente leggendo la sua Descrizione del Belvedere di Roma del 1759. La vista del torso di Ercole, una statua mutila, provoca nell’osservatore (uomo) l’istinto (che si colora di tinte erotiche) “alla Pigmalione” di risvegliare e completare visivamente l’opera.

Bätschmann riporta vari esempi dove l’approccio estetico all’opera d’arte avveniva già in forme esperienziali. Come nel caso dell’apertura al pubblico, solo durante determinate celebrazioni, della pala dei fratelli van Eyck nella chiesa di S. Giovanni Battista a Gand (collocata nel 1432), o dell’entusiasmo suscitato dalla presentazione del Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David nel suo atelier romano nel 1786, o ancora delle visite al gruppo del Laocoonte, sin dalla sua scoperta a Roma nel 1506. I tentativi di trasformare l’osservazione dell’arte in una esperienza viva sono evidenti nelle visite notturne a lume di candele, organizzate (per pochi visitatori) sin dai primi anni del XIX secolo e ai tableaux vivants, giochi di squadra dove un gruppo imitava, con appositi costumi, le opere d’arte che il pubblico doveva indovinare, una performance nata in Francia intorno al 1770. L’artista a sua volta è stato influenzato da questi fenomeni e stimolato, almeno in certi casi, a produrre un’opera comprensibile per il pubblico, come auspicava Lessing.

La ricerca di forme esperienziali dell’arte, la nascita dei musei, il formarsi di associazioni di amatori d’arte, l’interesse crescente per la vita e la morte degli artisti, l’emergere di una componente emotiva, drammatica, nelle opere (e di artisti accusati di ricercare l’empatia del pubblico per ottenere fama) sono tutti fenomeni che tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX hanno tentato, come ben esplicita l’autore, di colmare il divario tra vita e arte. Interessante è il capitolo 12 relativo a quegli artisti che hanno rappresentato il pubblico senza disprezzo né ironia; tra di essi, Éduard Manet che spesso ha dipinto attori e spettatori, secondo un percorso “che culmina nella sua ultima imperscrutabile opera sulla solitudine tra la folla, Il bar delle Folies-Bergère” (1881-1882).

Il saggio di Bätschmann, in quanto “aperto” e privo di conclusioni, stimola una serie di questioni laterali, lievemente off topic. Ad esempio, è pubblico sia quello che visita i musei e le mostre sia quello che ha accesso illimitato alle riproduzioni delle opere d’arte? Quali sono le differenze? Julia Roberts in Monna Lisa Smile (Mike Newell, 2003) interpreta una giovane insegnante di storia dell’arte in un college del Massachusetts del 1953, che è costretta a confessare ai colleghi (chiaramente di altro ceto sociale) di non aver mai visto dal vivo la Cappella Sistina. C’è chi tra di noi continuerebbe a deridere la professoressa Roberts? La visione dal vivo dell’opera è sempre e in ogni caso (al di là dell’educazione pregressa) un elemento conoscitivo di valore? Se l’originale permane come valore assoluto nel mondo dell’arte (compresi il mercato e la critica), perché stupirsi delle folle accalcate davanti alla Gioconda a scattarsi selfie? O delle migliaia di visitatori che accorrono all’ennesima mostra su Caravaggio e a tutte quelle raffazzonate esposizioni da botteghino contro le quali con validi motivi hanno perorato Tomaso Montanari e Vincenzo Trione (Contro le mostre, Einaudi 2017).

In secondo luogo, viene da chiedersi come mai il cliché del cattivo gusto, applicato al pubblico di massa stereotipato dell’arte, non sia al pari una etichetta del pubblico di teatri, concerti di musica classica o dell’Opera. Questo secondo pubblico non è mai stato criticato storicamente come quello dell’arte: forse perché in buona parte ancora composto da una élite (per questioni culturali, economiche e di accessibilità) forse perché protetto dal fortino del decoro: i teatri sono ancora luoghi in cui ci si veste eleganti, non si va in infradito, non ci si scatta selfie, non si mangiano popcorn. Nel passaggio dall’estetica della contemplazione individuale a quell’irrompere sudati e vestiti come si va in strada c’è un contrasto che disturba e sporca l’arredo da eterno riposo di molti musei e dei luoghi dell’arte. Ma cosa sia andato perduto, insieme al decoro e al privilegio di classe, è cosa che la critica d’arte ancora non riesce a spiegare.