Orhan Pamuk / La peste attraversa la storia e il romanzo

Orhan Pamuk, Le notti della peste, tr. Barbara La Rosa Salim, Einaudi, pp. 720, euro 25,00 stampa, euro 12,99 epub

“Questo è sia un romanzo storico, sia una storia in forma di romanzo”, ci avverte subito Mîna di Mingher con un arguto ammicco. “Nel racconto di ciò che avvenne durante i sei mesi più movimentati e cruciali della vita dell’isola di Mingher, perla del Mediterraneo orientale, ho incluso molti episodi della storia di questo Paese che amo così tanto”. Nel 1901 l’isola (fittizia, distopica) fu bersagliata dal morbo, mettendo a repentaglio l’incolumità del “grande malato d’Europa”, l’Impero ottomano; e la studiosa decide nel 2017 – sempre secondo la finzione narrativa – di ricostruirne la vicenda attraverso le centotredici lettere inviate dalla principessa Pakize, “terza figlia del trentatreesimo sultano ottomano Murad V”, alla sorella maggiore Hatice Sultan. Tale è la manzoniana cornice attorno a Le notti della peste, l’ultimo, intenso libro di Orhan Pamuk, edito in Turchia nel 2021, una sorta di “opera-mondo” (sul modello claudeliano?) che effigia e simbolizza la nota malattia infettiva, producendo effetti e strinate allegoriche – con vibratili citazioni da Tolstoj, Conrad, Camus – in un andamento piano (fanta-)storico, quasi documentario.

Classe ’52, istambuliota, premio Nobel per la letteratura nel 2006 in virtù di “nuovi simboli” capaci di “rappresentare scontri e legami fra diverse culture”, Pamuk ha confezionato tra romanzi e saggi oltre una quindicina di volumi, il cui fil rouge è ravvisabile tematicamente nella dicotomia Oriente-Occidente e stilisticamente nel continuo, caparbio scarto tra reale e immaginario. La prefazione “camuffata”, peraltro, ci dà qualche preziosa indicazione sulla sua personale concezione della scrittura romanzesca, filtrata dai pensieri affastellati di Mîna: “L’arte del romanzo si basa sulla capacità di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre. […] Se un romanzo deve superare, nello spirito e nella forma, l’orizzonte del singolo individuo, e tendere a un tipo di storia che abbracci le vite di tutti, è preferibile che sia narrato da molti punti di vista diversi. D’altra parte, sono d’accordo con il più femminile dei romanzieri maschi, il grande Henry James, secondo cui, perché un romanzo sia veramente convincente, ogni particolare e ogni evento devono disporsi intorno alla prospettiva di un singolo personaggio. Tuttavia, poiché allo stesso tempo ho scritto un libro di storia, ho spesso derogato alla regola del ‘punto di vista unico’ e l’ho talvolta infranta. Ho interrotto scene toccanti per fornire al lettore fatti e cifre, oppure la storia delle istituzioni governative”.

Tentato dalla bachtiniana polifonia, Pamuk inizia la narrazione con il sessantenne dottor Bonkowski Pascià, esperto virologo, e il suo assistente che certificano la presenza della peste sull’isola e la necessità di imporre misure sanitarie precauzionali. Mingher è un luogo multiculturale, in cui musulmani e cristiani ortodossi convivono dentro una pencolante armonia, messa immediatamente a repentaglio dall’imposizione della quarantena. Bonkowski ha vita breve: è assassinato in un vicolo. Le tensioni sociali aumentano vorticosamente e, insieme con esse, la paura che la malattia possa allargarsi a macchia d’olio con tutte le contraddizioni del caso: i pynchoniani personaggi del complotto, i dilemmi ontologici circa l’esistenza effettiva della peste bubbonica, l’efficacia o meno delle misure contenitive. Davvero Pamuk, con uno stile esatto e palpitante, riflette lo Zeitgeist (benché l’idea del romanzo, in qualche modo profetica, sia sorta addirittura negli anni Ottanta, durante la stesura di La casa del silenzio, 1983), e alluma un varco etico contro le brutture – anche politiche – del nostro doloroso presente.