Orazioni Funebri per Vampiri Illustri o Vampiri di Rito Scozzese. Riflessioni a margine di L’Accusa del sangue di Furio Jesi

L’ombra ambigua del mito

Notte tra l’otto e il nove Agosto 1969, Bel Air, Los Angeles, villa del regista Roman Polanski al numero civico 10.050 di Cielo Drive. Un gruppo di hippies strafatti di acido fa irruzione nell’abitazione del famoso regista Roman Polanski. Fanno parte della setta “The Family” di Charles “Satana” Manson, un cantante fallito che verrà riconosciuto in seguito come il mandante della strage di Cielo Drive. Tra questi Susan Atkins, detta “Sadie”, fedelissima di Charles Manson. Quella sera il regista Polanski non c’è, e la bellissima moglie, l’attrice Sharon Tate, ha invitato alcuni amici. Non appena i membri della “Famiglia” di Manson si introducono nella villa, la tranquilla serata si trasforma in un incubo e la povera Sharon Tate, che porta in grembo un bambino, supplica i membri della setta di risparmiarla, cercando di impietosirli. Ma Susan Atkins non si fa incantare dalle suppliche della Tate, le annuncia che sta per morire e senza alcuna esitazione affonda il coltello più e più volte nel corpo della sventurata attrice. Anzi, la leggenda vuole che, dopo aver inferto la prima coltellata, Susan Atkins, affascinata dalla vista del sangue, intinse un dito nella ferita e poi se lo leccò. Quel che è certo è che subito dopo aver pugnalato a morte la povera Sharon Tate, Susan Atkins intinse un asciugamano nel suo sangue e scrisse sulla porta della villa la scritta PIG, cioè porci borghesi capitalisti pieni di soldi state attenti, che vi verremo a prendere uno a uno nelle vostre case. Ma il vero messaggio di quella notte e di quella strage è un altro. La “Summer of Love” è finita. Sharon Tate diventa l’agnello sacrificale la cui uccisione segna la fine dell’Utopia degli Anni Sessanta.

17 Agosto 1981. Carcere di Badu e’ Carros, Sardegna, Italia. In un caldo pomeriggio d’agosto, il boss della Mala milanese Francis Turatello sta tranquillamente passeggiando nel cortile del carcere nel quale è detenuto. All’improvviso viene aggredito da altri quattro detenuti armati di coltelli. Il mandante dell’aggressione è Raffaele Cutolo, capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata (NCO), all’epoca detenuto nel Supercarcere di Ascoli Piceno. Tra i killer di Turatello, detto “Faccia d’angelo”, c’è il camorrista Pasquale Barra, braccio destro di Cutolo, detto o’ nimale, che avrebbe addentato le viscere ancora calde di Turatello leccandone il sangue in segno di spregio. Il delitto serve ad affermare il potere della Nuova Camorra sulla piazza milanese, o forse per chiudere la bocca per sempre a Turatello, che avrebbe potuto rivelare chi in quegli anni aveva custodito in alcune carceri del Belpaese la versione completa del Memoriale Moro. Anche in questo caso il grave fatto di sangue serve a veicolare un messaggio. Il grande boss della Mala sgozzato come un capretto, ridotto a un semplice agnellino da sbudellare senza pietà. Secondo un’altra versione, Barra, tenendo fede al suo soprannome, avrebbe addirittura strappato il cuore dal petto squarciato di “faccia d’angelo” e lo avrebbe morso…

Leccare il sangue dei propri avversari appena uccisi rappresenta dunque un gesto estremo di disprezzo che rende l’omicidio ancora più efferato. Nel caso della Atkins, forse c’era solo il gusto di spingersi oltre ogni limite imposto dalla morale borghese. Altri killer o serial killer “vampiri” in epoca moderna lo hanno fatto semplicemente perché affascinati dal sangue, pochissimi perché effettivamente convinti nella loro follia di poter ottenere, bevendo il sangue delle loro vittime, una lunga vita o addirittura lì’immortalità. Si potrebbe dire che in questi efferati omicidi la sacralità del sangue – presente nella nostra cultura fin dai tempi antichi – viene del tutto annullata.

Nella narrazione biblica delle Piaghe d’Egitto, quando si scatena la piaga che decreta la morte dei primogeniti, le case degli ebrei vengono risparmiate da Dio perché gli stipiti delle loro porte sono stati segnati con il sangue d’agnello. La funzione salvifica del sangue, che torna nell’immagine del sangue di Cristo che toglie i peccati del mondo, si trasforma nei secoli successivi in una maledizione. Già all’indomani della crocefissione di Cristo si comincia a diffondere l’accusa gravissima di deicidio contro gli ebrei, l’accusa di aver ucciso Dio stesso sulla Croce, di aver sparso il sangue di Cristo innocente. Il sangue innocente di Cristo ricade come una maledizione sugli ebrei, che, a partire dal Primo Secolo dell’era cristiana, cominciano a essere perseguitati anche per questo. Il sangue che redime, che lava i peccati, che purifica, diventa il sangue che infetta, che segna come una maledizione, come abbiamo visto in anni più recenti nel caso dell’infezione da virus HIV – la Sindrome da Immuno-Deficienza Acquisita e la diffusione dell’AIDS.

L’opera dell’antropologo e germanista torinese Furio Jesi, morto nel 1980 e allievo brillante di Karoly Kerényi, è come un fiume carsico che ogni tanto riappare in superficie. Jesi, a mio modesto parere uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento, ha inaugurato un nuovo approccio agli studi storici e letterari che parte dall’analisi del mito, e fa molto affidamento su un pensiero che non si preoccupa affatto di costruire solide fondamenta teoriche, ma che procede per intuizioni successive. Jesi ha molto da insegnarci a proposito del mito del sangue: egli ha infatti studiato per lunghi anni e rintracciato con grande fiuto investigativo le origini di quella “accusa del sangue”, di quel mito del vampirismo e dell’antropofagia rituali, dell’assassinio rituale dei bambini cristiani da parte degli ebrei, di quella “macchina mitologica antisemita” che ha perseguitato per secoli gli ebrei. Secondo questa accusa, proprio come il sangue dell’agnello innocente avrebbe risparmiato le vite dei primogeniti ebrei durante le piaghe d’Egitto, così nei secoli successivi alcuni di loro avrebbero conservato l’abitudine di utilizzare il sangue di innocenti bambini cristiani per confezionare il pane azzimo da consumare durante il pranzo pasquale.

Nel corso della sua breve ma intensa carriera di studioso dei miti fondanti della cultura moderna, di “antropologo delle idee”, Jesi ha individuato nella cultura della Destra e nella letteratura tedesca tra l’Ottocento e il Novecento quel motivo del sangue che, fondendosi con l’antichissima “accusa del sangue”, ha prodotto sotto il nazismo un mix micidiale. Lo stesso Jesi era ebreo – un ebreo ateo, un “ebreo senza Dio”, come Sigmund Freud – e il suo ebraismo si è estrinsecato in modi del tutto originali. Il suo ebraismo e la sua passione per i testi e per lo studio – due cose che nella cultura ebraica finiscono per coincidere – non era un ostacolo, anzi costituiva un elemento fondamentale del suo status di libero pensatore. Ciononostante la sua libertà di pensiero e il suo interesse per la cultura, in particolare per la “cultura di destra”, come recita il titolo di un suo famoso libro, non hanno mancato di infastidire coloro i quali ritenevano di essere gli unici depositari di questa antica Tradizione che lega le radici culturali di un popolo in modo indissolubile con il sacro suolo della patria e con il sangue. Jesi è stato certamente, in quanto ebreo e militante della Nuova Sinistra – che negli anni Settanta si contrapponeva al consociativismo e alla “svolta moderata” del PCI – uno degli intellettuali più odiati dai neofascisti e in generale dalla Nuova Destra. Molti ricordano la squallida battuta antisemita che un sedicente intellettuale di destra utilizzò in occasione della morte accidentale di Jesi per le esalazioni di uno scaldabagno, nel 1980, a soli 39 anni.

La presenza di Jesi riemerge di tanto in tanto sotto forma di una ispirazione profonda in alcuni studiosi contemporanei, anch’essi liberi da qualsivoglia pregiudizio teorico e svincolati dalle varie consorterie accademiche, che analizzano in modo del tutto indipendente i residui mitici che ancora permangono e le varie “macchine mitologiche” che influenzano profondamente la nostra cultura, e non solo la cultura di Destra. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, abbiamo assistito a una riscoperta di Jesi, a un ritorno a Jesi, che è stato e rimane una presenza importante non solo per gli studi di “storia delle idee” e di germanistica, ma per gli studi di storia contemporanea e per la cultura italiana in generale. Soltanto Jesi poteva, nello stesso saggio, parlare di Rainer Maria Rilke e della scrittrice di romanzi rosa Liala, per evidenziare i vari aspetti della cultura di destra. Liala ovviamente rappresentava quella cultura di destra essoterica che crea dei miti rassicuranti che è possibile “consumare” senza problemi, e solleva i suoi lettori dalla fatica di comprendere concetti troppo complicati e in definitiva di “pensare”. Un’altra intuizione fondamentale di Jesi, un suo lascito destinato a rimanere nel tempo, è il concetto, successivamente ampiamente ripreso e dibattuto, di “invenzione della tradizione”, l’esigenza di costruire dal nulla una tradizione (per esempio, la “Padania”) su cui fondare la propria “macchinazione” mitologica. Jesi anticipò anche moltissimi degli studi che successivamente hanno analizzato il cosiddetto “nazismo magico”, già individuato dallo storico George Mosse (Le origini culturali del Terzo Reich, 1964; rist. 1984 ) e poi ripreso da Giorgio Galli, (Hitler e il nazismo magico. Le componenti esoteriche del Reich millenario, 1989; rist. 2019), pur nella diversità delle interpretazioni. Lo stesso Marco Dolcetta, nella sua analisi delle origini esoteriche del nazismo (Nazionalsocialismo esoterico. Studi iniziatici e misticismo messianico nel regime hitleriano, 2003), deve molto alle intuizioni di Jesi e poi di Galli. Ne consegue che chiunque voglia accostarsi e intraprendere uno studio serio della cultura di destra, da Evola fino ai neofascisti e ai neonazisti odierni, non può prescindere dall’opera di Jesi, e in particolare da Cultura di Destra, pubblicato nel 1979 da Garzanti, ripubblicato nel 2011 da Nottetempo, a cura di Andrea Cavalletti.

Il primo testo in cui il mito dell’accusa del sangue si fonde con il filone dei vampiri – altra geniale intuizione di Jesi –  è un breve ma fondamentale testo dello scrittore romantico tedesco Heinrich Heine. Heine, anch’egli un ebreo anomalo come Jesi, si convertì al Protestantesimo nel 1825, poi aderì alla Massoneria nel 1844 e diventò amico di Marx, ma rimase molto sensibile al fascino e al legame con la sua tradizione ebraica. Nella novella “Il Rabbi di Bacharach”, un’opera dalla lunga gestazione, dal 1824 al 1840 (1934, rist. 1970, ristampato da SE nel 2003), e rimasta incompiuta, Heine immagina che un rabbino sia costretto a fuggire improvvisamente dal suo villaggio perché viene a sapere che contro di lui si sta tramando per accusarlo di omicidio rituale. La storia di Heine sarebbe dunque il primo caso in cui si crea un cortocircuito tra la tradizione dei vampiri e l’accusa di omicidio rituale contro gli ebrei. La storia stessa nasce da uno studio attento che Heine fece di alcune antiche cronache medievali, nelle quali si parlava della “accusa del sangue”. Jesi rintraccia l’origine di questa accusa in ambito cristiano facendola risalire all’iconografia medievale dell’ostia che sanguina (vedi il Miracolo dell’ostia profanata di Paolo Uccello, conservato al Palazzo Ducale di Urbino) che non tarderà a fondersi con l’accusa agli ebrei di aver fatto sanguinare Cristo e dunque di avere ucciso Dio. In particolare, nel saggio L’accusa del sangue, del 1973, Jesi riprende la storia del processo agli ebrei di Damasco del 1840, durante il quale un gruppo di ebrei che vivevano nella capitale siriana fu accusato di aver ucciso dei cristiani al fine di utilizzarne il sangue per confezionare del pane azzimo in occasione della Pasqua. In un pauroso ribaltamento del rituale eucaristico, si riteneva che gli ebrei considerassero il sangue cristiano il più adatto a riscattare i loro peccati in occasione del pranzo pasquale. Ancora una volta i cristiani si identificavano con il Cristo, con l’agnello sacrificale, e rinnovavano contro gli ebrei l’accusa di averlo ucciso costruendo questa accusa di omicidio rituale. Questo mito del sangue si fonde, in altre opere di Jesi, e in particolare in Germania segreta (1967), con la retorica del sangue e del suolo tipica della cultura nazionalista tedesca (“Blut und Boden”), creando un coacervo di paura e di odio che porterà all’antisemitismo nazista.

Dunque secondo le varie leggende metropolitane prodotte da questa micidiale macchina mitologica, gli ebrei avrebbero una qualche consuetudine a bere il sangue dei bambini cristiani e a cibarsene durante il pranzo pasquale. Secondo questa leggenda, la cultura ebraica sarebbe ossessionata dal sangue, dal sangue cristiano che servirebbe a redimere i peccati degli ebrei. Ma si tratta di una vera e propria fake news: la cultura e la tradizione ebraica non vanno alla ricerca del sangue, ma semmai è vero il contrario. Si può dire che la cultura ebraica sia ossessionata dal sangue, ma nel senso che nell’ebraismo tradizionale il sangue ha un valore sacro, tanto da dover essere eliminato completamente dal corpo dell’animale prima di essere consumato. Nella macellazione rituale ebraica, infatti, l’animale deve essere completamente dissanguato prima di poter essere mangiato. Le norme della Torah vietano espressamente qualsiasi contatto con il sangue, con il sangue umano, e soprattutto con il sangue mestruale, considerato particolarmente infetto e impuro. Su questo vero e proprio tabù ebraico Philip Roth ha scritto pagine dissacranti nel romanzo L’animale morente (2001).

Dunque il mito del vampiro nascerebbe dall’accusa del sangue rivolta agli ebrei? Le cose sono un po’ più sfumate, ma è certo che in alcune opere letterarie in lingua tedesca dell’Ottocento, alcune scritte addirittura da ebrei (Heine), e soprattutto in quella che Jesi definisce come “la macchina mitologica antisemita” messa in moto dai nazisti, questi due filoni convergono. Alla luce di queste intuizioni di Jesi, si capisce meglio il collegamento che troviamo in alcune opere letterarie sui vampiri, come il classico Dracula (1897) di Bram Stoker [Gallo], tra il contagio (ebraico?) rappresentato dalla peste e la presenza del vampiro che si è trasferito in Inghilterra. Proprio come la peste, gli Ebrei sotto il nazismo vennero identificati come dei germi patogeni che infettavano la società, che dovevano essere eliminati per mantenere la società tedesca e la razza ariana sane e vigorose. Del resto lo stesso Stoker era legato alla società esoterica della Golden Dawn, che era profondamente imbevuta di antisemitismo – pur riprendendo nei suoi rituali una simbologia ebraica, come la Kabbalah e il Sigillo di Salomone – un antisemitismo che caratterizzava fortemente anche quei circoli esoterici, soprattutto russi e ucraini, che secondo Giorgio Galli ebbero un influsso fondamentale sia sulla Golden Dawn di Madame Blavatsky che sulla Società Thule di cui facevano parte alcuni dei più alti gerarchi del nazismo, tra cui il delfino di Hitler Rudolph Hess, che si decise a compiere il suo folle volo sull’Inghilterra proprio perché pensava che quei circoli esoterici inglesi, e in particolare il Duca di Hamilton, potessero influire sulle decisioni del Governo inglese.

In conclusione, ci piace citare l’unico romanzo scritto da Furio Jesi, da questo poliedrico critico letterario e studioso dei miti, L’ultima notte, pubblicato postumo nel 1987, ma già completato nel 1970. Il romanzo, che in modo del tutto originale narra la storia dal punto di vista dei vampiri, descrive l’apocalittica battaglia finale tra i vampiri e gli umani. In questo romanzo torna prepotente l’equivalenza tra ebrei e vampiri (e dunque, in base a questa equivalenza, la battaglia finale sarà tra gli ebrei e i gentili), ma ad essa si aggiunge un ulteriore stratificazione mitologica: la profonda affinità tra i vampiri e i massoni. Il discorso funebre in onore di Dracula è ricalcato infatti sul testo dell’orazione funebre per Giosuè Carducci (massone di rito scozzese dal 1862 e successivamente associato alla Loggia Propaganda Massonica 1, la P1) che fu pronunciata nella Loggia massonica di Porto Maurizio dall’Insegnante Percy Chirone (nonno materno di Jesi) nel 1907, analizzata da Furio Jesi in Cultura di Destra. In questa orazione funebre, che viene completamente riscritta nel romanzo, si traccia un parallelo tra i vampiri e i massoni. I vampiri non sarebbero altro che una sorta di consorteria massonica perseguitata da secoli – proprio come gli ebrei – che si nasconde nelle tenebre e custodisce gelosamente il proprio “segreto” in attesa della notte del riscatto e della battaglia finale, irriducibile nemica dei preti e della Chiesa Cattolica, orgogliosa di essere una minoranza che non si può confondere con gli uomini comuni. Vampiri di Rito Scozzese? Non sarà il caso di scoperchiare qualche tomba massonica per controllare se è tutto a posto? Non sarà il caso di rileggere l’Inno a Satana di Carducci alla luce (massonica) di questa nuova consapevolezza?

Da qui potrebbe prendere le mosse un lungo discorso che ci porterebbe ai collegamenti tra alcuni ambienti massonici nazionali e internazionali, tra una rete internazionale di pedofili e di serial killer vampiri e alcune sette sanguinarie che utilizzano la mitologia del sangue e addirittura riprendono letteralmente quei riti sanguinari che prevedono la profanazione dell’ostia e il sacrificio di vite umane, in particolare di bambini. Ma questa è un’altra storia…

Bibliografia

Furio Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900 (1967), Feltrinelli, 1995.

Furio Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita (1973), intr. di David Bidoussa, Morcelliana, 1993; rist. Bollati Boringhieri, 2007.

Furio Jesi, Cultura di Destra,  Garzanti, 1979, rist. Nottetempo, 2011.

Heinrich Heine, Il Rabbi di Bacharach (1824-1840), Mondadori, 1934 (rist. 1970)